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Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

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Il candidato che parlava sottovoce

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Quanto importa saper comunicare in politica? Quanto importa saperlo fare durante le elezioni? Quanto contano, infine, il candidato e il messaggio da mandare?

Ebbene sì, lo ammetto, questo articolo mi è venuto in mente dopo aver guardato un episodio di una serie americana leggera, a tratti piuttosto frivola, e probabilmente questo non mi farà onore.

Detto questo però, mentre ero sul divano durante quei giorni di isolamento forzato, ho capito perché la sinistra ha perso le scorse elezioni almeno da un punto di vista comunicativo.

Ci siamo abituati ormai a includere la comunicazione nella strategia politica della campagna elettorale, soprattutto negli ultimi vent’anni e mi scuso già con i millennials se sembro una boomer senza scampo.

I programmi elettorali, malgrado tutto, appaiono secondari in campagna elettorale o meglio vengono proprio dopo rispetto all’appeal comunicativo del candidato e del messaggio. Non voglio dire che questo sia un bene o un male, semplicemente è così per tutta una serie di ragioni socio culturali che non sto qui ad elencare.

Detto questo, l’efficacia della comunicazione in prima battuta diventa più importante del contenuto espresso e la forza comunicativa di chi parla è uno dei primi requisiti che dovrebbe essere esaminato. So bene che non siamo in uno show ma anche in questo caso un buon “casting” potrebbe davvero fare la differenza.

Vengo al punto: il candidato del partito di centro sinistra che ha preso più voti alle ultime elezioni (non sufficienti e assolutamente fuori dagli obiettivi che aveva il partito stesso) è stato Enrico Letta del Partito Democratico. Un uomo impegnato in politica da molto tempo, professore universitario e che, durante la sua carriera politica ha incassato colpi piuttosto duri ma ha fatto poco parlare di sé e del suo carisma. Parla in modo pacato, quasi sottovoce, indossa giacche e completi piuttosto anonimi e comunica più per rassicurare che per ispirare o trascinare.

Non ha l’appeal di un leader quanto piuttosto di un tecnico competente e affidabile che saprebbe svolgere le sue mansioni con estrema diligenza. 

Con un candidato di questo tipo, anche il messaggio più importante e condiviso del mondo perde di efficacia e non arriva ai destinatari perché la voce che lo pronuncia non emerge. 

Se a questo aggiungiamo una strategia di rimessa rispetto alla comunicazione opposta e la leva, ormai abusata, del “votate ma, che sono il meno peggio”, il risultato era piuttosto prevedibile.

Per riassumere, vorreste assistere ad un concerto rock con il volume basso e un front man che si vergogna ad entrare? Anche se sapete che saranno suonate tutte le vostre canzoni preferite, penso non scegliereste di pagare il biglietto e magari scegliereste un’altra band.

Giusto? 

La stessa cosa avviene in campagna elettorale perché l’elettorato è come un pubblico che, non solo deve sentirsi rappresentato dal candidato, ma deve appassionarsi al messaggio e alla persona. E quel pubblico è ampio e misto: ci sono indecisi, convinti, arrabbiati, calmi, polemici, poveri, ricchi, emarginati, inclusi, inquadrati, caotici, acculturati, analfabeti, uomini, donne o persone che non amano essere etichettate.

Sono tanti e diversi e ognuno guarda al mondo politico per una ragione. E se la voce che parla non si fa sentire in modo chiaro, deciso e con davvero qualcosa da dire, allora è stato tutto inutile. 

Chi mi conosce lo sa, ma lo ripeto lo stesso, che non sono per niente d’accordo con il risultato delle elezioni e che avrei sperato di scrivere un articolo diverso, ma ormai la frittata è fatta e forse, analizzando gli errori la prossima volta si potrà fare meglio.

Io lo spero davvero. 

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