Parliamo di politica, più o meno seriamente.

Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

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Questa non è un’intervista. TikTok, i politici e la fine della dialettica

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Chi fa da sé, fa per tre. Lo diceva sempre mia nonna, probabilmente senza sapere che anche la comunicazione politica sarebbe andata in quella direzione in modo veloce ed esponenziale.

Avrete notato tutti che siamo in campagna elettorale, e avrete anche notato che, a livello comunicativo, non ci sono più le campagne elettorali di una volta.

Prima dell’avvento del web 2.0 (quello dove il fruitore diventa anche creatore di contenuti e dove più in generale aumenta fortemente l’interazione tra sito e utente), i grandi personaggi avevano necessariamente bisogno di una mediazione per arrivare al loro pubblico.

Il giornalista, prima con macchina da scrivere e poi anche con microfono e telecamera, fungeva da mediatore. In una parola, intervistava. Chiedeva, ascoltava e, se era bravo, chiedendo smascherava. Questo avveniva soprattutto se quello seduto davanti a lui era un politico. Il giornalista attuava un pubblico servizio che, a mio avviso, era e rimane uno dei più nobili e utili.

Senza andare a scomodare intervistatori storici del calibro di Frost, o, per l’Italia, di Biagi e soprattutto Scalfari (sempre attuale la sua magistrale intervista a Berlinguer sulla “Questione morale”, di cui vi propongo un estratto), è evidente quanto tutto questo non sia più realtà, nemmeno in campagna elettorale, momento in cui in teoria ci si deve far ascoltare di più.

Una scena dl film “Frost/Nixon – Il duello” del 2008

Oggi i politici, con i loro nutriti staff di esperti di comunicazione, preferiscono fare da sé, senza mediatori. Lo sbarco di Renzi, Calenda, del PD come partito e persino di Berlusconi su social di ultimo grido come TikTok, ne è l’ultima goffa dimostrazione, e il lavoro sporco di mettere insieme i pezzi, tra un imbarazzo e l’altro, tocca al povero internauta.

Non mi interessa rimarcare la pateticità, il completo fraintendimento del mezzo e l’evidente incapacità di utilizzo dello stesso, perché non avrei niente da dire di più di quello che avete già letto o ascoltato in giro in questi giorni (e se volete farvi due risate da qui al 25 settembre, vi consiglio il nuovo podcast di Luca Bizzarri per Chora media, “Non hanno un amico”)

Piuttosto preferisco sottolineare quanto l’utilizzo di Instagram, Facebook, Twitter o TikTok confermi questa tendenza all’isolamento, non importa se queste piattaforme sono usate bene, (andatevi a vedere il profilo TikTok di Ken Russel, candidato al Congresso per i democratici) o male (andatevi a vedere un profilo TikTok di uno qualsiasi dei nostri).

L’utilizzo virtuoso diventa secondario, perché in entrambi i casi la dialettica ne risente. Farsi intervistare davvero non va più di moda, non conviene più.

Si fa, ma poco e di malavoglia. Al confronto con un mediatore incalzante, soprattutto se preparato e non affetto da piaggeria, si preferisce un soliloquio con la telecamera dello smartphone o la tastiera di un pc, si sceglie di recitare qualcosa per mostrarsi simpatici e falsamente autoironici. Lo si ritiene più efficace e diretto.

Ma non c’è contraddittorio nelle storie di Instagram o in un post di Facebook, perché (attenzione, lo so cosa state pensando) mandare una reaction o commentare sotto a un post, anche in maiuscolo, anche cento volte, non vale. Sui social se qualcuno commenta e chiede spiegazioni, anche con sagacia e intelligenza, il tempo che trascorre tra domanda e risposta azzera l’efficacia del confronto.

Alcuni dei nostri politici recentemente sbarcati su Tik Tok.

I politici italiani affidano ai social messaggi teoricamente di spessore, ma poi litigano e si azzuffano su quei temi a suon di Twitter e post di Facebook con ore, talvolta giorni di distanza, distruggendo completamente quella dialettica immediata che della politica dovrebbe essere l’anima, e apparendo sempre più spesso come tredicenni bizzosi durante la ricreazione.

Dirò di più: metto in discussione anche il fatto stesso di avere e utilizzare più di un canale social, soprattutto durante una campagna elettorale breve come uno starnuto, tipo quella di queste settimane. Questa parcellizzazione estrema della comunicazione polverizza i messaggi e confonde un elettorato già stranito e distante.

Avere tre o quattro account su piattaforme così diverse appare innaturale per un sessantenne, qualunque sia il suo mestiere e qualunque sia l’anno di nascita dei suoi social media manager. O almeno questo è l’effetto che fa a me vedere un qualsiasi politico dell’età dei miei genitori con i piedi in tre o quattro staffe virtuali, usate tutte, ovviamente, male.

Se proprio i social sono indispensabili (e in parte lo capisco eh, sono comunque una millennial per diritto di nascita), che si faccia una scelta sensata, circoscritta e funzionale. Almeno quando si tratta di cose di importanza collettiva, meno ma meglio, avrebbe detto mia nonna.

Insomma, nella politica fatta coi social, tocca agli utenti ricomporre il puzzle per scoprire quale sia il messaggio, e senza la possibilità di vederlo messo in discussione da nessuno che sappia fare le domande giuste. Il tutto, ovviamente, quando un messaggio c’è.

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