Furio Diaz
La città di Livorno sta discutendo e preparando il nuovo Piano Operativo. E’ l’occasione per immaginare il futuro della città e avere diverse visioni di quel che sarà. L’avvocato Ruggero Morelli ha raccolto alcuni pensieri di concittadini appassionati e ce li ha inviati. Li racconteremo in questa rubrica, episodio dopo episodio. Ecco il dodicesimo.
Eviterò considerazioni tecniche e troppe specifiche sul Next Generation Livorno, sulla Darsena Europa, sul nuovo Piano operativo e sulla variante al Piano strutturale, nodi che, in ogni caso, segnalano una fase di potenziali trasformazioni sociali, economiche, istituzionali e culturali nel porto labronico.
Eviterò anche di ricorrere ai suggestivi ma abusati paradigmi del rilancio e della rinascita, che alludono a mitiche età dell’oro e a miracolosi balzi in avanti cui è saggio non prestare fede. Meglio rievocare il metodo e la pratica di una paziente, costante, radicale riforma, animata da un disegno politico di ampio respiro che guardi alla lunga durata senza facili illusioni e però anche senza eccessivi compromessi.
Proprio sul disegno politico, o piuttosto sulla sua assenza, vorrei soffermarmi. Da storico, troppe volte ho dovuto constatare la desolazione e la staticità della scena culturale livornese, ciclicamente attenuate solo da qualche isolato progetto purtroppo avulso da una coerente linea ispiratrice. Questo tuttavia non avviene per scarsità di intellettuali – di lumières, direbbero i philosophes settecenteschi – ma per l’evidente mancanza di una politica culturale comunale che intersechi turismo, urbanistica, istruzione e cultura in virtù di una precisa interpretazione storiografica del passato livornese.
Almeno in certa misura, il nostro provincialismo culturale, un male ormai cronicizzato, è l’esito di un oblio. Se infatti nel discorso pubblico e istituzionale si è insistito a più riprese – e a ragione, sia chiaro – sull’identità risorgimentale, mazziniana, garibaldina, repubblicana, operaia, anarchica, comunista della Livorno otto e novecentesca, quasi nulla resta invece nella memoria collettiva della Livorno d’Età moderna: quella del porto franco, delle nazioni, del granduca Ferdinando, di Cosimo III de’ Medici, di Marco Coltellini, dell’Encyclopédie, di Pietro Leopoldo, del commercio globale e interculturale, del “cosmopolitismo corporativo”.
Un’esperienza storica plurisecolare di problematico, inquieto e spesso conflittuale incontro tra etnie e culti incoraggiato dalle sperimentazioni del potere mediceo sul terreno dei traffici commerciali.
Non è questa la sede per discettare sulle cause della sotterranea rimozione della Livorno preunitaria, in genere descritta ricorrendo a vuote e fuorvianti formule retoriche. Mi preme qui sottolineare, semmai, che uno sviluppo portuale non accompagnato da un significativo progresso culturale si tradurrebbe in un’operazione puramente economicistica, meccanica, in ultima analisi sterile. Proprio questa sconfortante prospettiva – peraltro non inverosimile – dovrebbe indurre a rendere la trascurata Livorno delle Nazioni il perno di una politica culturale radicalmente innovativa rispetto alla tradizione, con ricadute profonde su turismo, brand territoriale, pianificazione urbanistica e commercio.
Un’audace risoluzione politica che di fatto imporrebbe il recupero del patrimonio storico-artistico del porto franco (a cominciare dall’Antico Cimitero degli Inglesi), la cooperazione tra amministrazione, mondo accademico e associazionismo, il ripensamento del panorama museale cittadino e dei percorsi di visita, la promozione di convegni e di conferenze pubbliche, l’incoraggiamento alla ricerca, il coinvolgimento e la partecipazione popolari, la proiezione mediterranea della città.
L’opzione riformatrice non è mai stata cosa facile e non lo è neppure in questo caso. Ma in una temperie storica assai più avversa e avvilente di quella attuale – la Livorno del secondo dopoguerra e della ricostruzione – Furio Diaz affiancò agli assi portanti dell’edilizia popolare e dello sport quello della cultura. Sapeva infatti che le forze spirituali di una comunità politica non incidono meno di quelle materiali. La rottura politica e culturale che domando dovrebbe prendere le mosse da questa consapevolezza.