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Laura Lezza, un’icona della fotografia internazionale targata LI

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Intanto vado, dunque sono. A colpi di like, dunque sono. Non basta partire con la macchina fotografica e le spalle coperte da risorse proprie. Sta venendo meno la professionalità, nel fotogiornalismo, questo è evidente. Le belle fotografie, le fotografie che restano sono frutto di un progetto, di un percorso, non casuali. In tanti casi la fotografia è diventata un’oligarchia. Lavora chi può già permetterselo. Una sorta di circo dove si parte, si fotografa, forse si pubblica, forse no. Forse si partecipa a un premio, a un concorso, a un festival, a un talk. La grande assente è spesso la vera fotografia. Il lavoro di un professionista al giorno d’oggi deve dunque essere fatto di passione, tenacia, progettazione precisa, originalità. Io lavoro come fotografa di news, cronaca e anche di reportage.

Conosco Laura Lezza da diversi anni, da quando eravamo veramente dei ragazzini. Ho seguito da lontano tutte le grandi conquiste che ha raggiunto professionalmente in questi anni, e con la scomparsa di Letizia Battaglia (che Laura mi ha fatto conoscere in occasione della sua mostra) mi è venuto in mente di chiamarla per farmi raccontare la sua storia dietro e dentro l’obiettivo.

Ciao Laura, ci conosciamo da diversi decenni ma è la prima volta che affrontiamo il tema della vita professionale. La tua, stavolta. Non sto a chiederti gli esordi, gli inizi e la gavetta fatta, ma vorrei principalmente capire com’è fatto il mondo dei fotografi professionisti. Ci racconti in che modo è organizzato il tuo lavoro e come si affronta la decisione di andare in qualche parte sperduta del mondo per raccontare e interpretare i fatti che avete sotto la macchina fotografica? 

Il mio bisnonno materno, Giulio Allori, un pittore post macchiaiolo, diceva: «I pittori non sono come i ciclisti che si distinguono tra professionisti e dilettanti: o sanno dipingere o non lo sanno». Vale anche per la fotografia! Oggi è un lavoro complesso in questo mare magnum di immagini. Un lavoro fondato su volontà, resistenza e capacità di raccontare in maniera originale un pezzo di mondo. Per lavorare occorre riuscire a creare una sorta di cornice, di confine, affinché questo frammento del mosaico del mondo non si disperda nel flusso ininterrotto di immagini che ogni istante vengono prodotte, condivise.

Il mondo dei fotografi professionisti è caratterizzato da una sorta di lotta per la sopravvivenza totale, in cui occorre cercare di raccontare, di fare emergere una immagine e farla restare. Il tuo frammento di racconto deve riuscire a non essere inghiottito da questo flusso di immagini che vengono costantemente prodotte da miliardi di strumenti capaci di scattare e che teniamo nelle nostre mani, nelle tasche o accanto agli occhi o sopra le nostre teste.

Un famoso fotografo italiano, oggi ultraottantenne, che ha fotografato ben undici guerre, papi, divi e cronache di ogni tipo, tempo fa mi ha detto durante una delle sue care telefonate: «Siete degli eroi! Voi reporter di oggi siete degli eroi per continuare a lavorare!». Occorre lottare per fare comprendere che la fotografia non è gratuita. Editori, giornali, media investono sempre meno nella fotografia. Il web è un far west dove si crede che la fotografia sia di ciascuno e utilizzabile da tutti. Il caffè e il cappuccino al bar si pagano, le mele non si rubano, ma le fotografie sembrano essere di chiunque le veda e voglia usarle.

Manca, soprattutto nella nostra Italia, una cultura fotografica, un rispetto della autorialità. Le foto viaggiano sui giornali e in rete senza nome, senza protezione, generando fraintendimento, ruberie. Quando è scoppiato il conflitto in Ucraina non c’è stato un assegnato di media italiani per i fotografi italiani. I fotografi e le fotografe devono autoprodursi il reportage e la permanenza in zona di conflitto, per poi cercare di vendere a quegli stessi media, pubblicare. Migliaia di fotografie simili, senza alle spalle un progetto editoriale che costruisca una narrazione forte e necessaria. La fotografia professionale è dunque diventata in molti casi uno status symbol, più che un reale lavoro.

Intanto vado, dunque sono. A colpi di like, dunque sono. Non basta partire con la macchina fotografica e le spalle coperte da risorse proprie. Sta venendo meno la professionalità, nel fotogiornalismo. Le fotografie belle e che restano sono frutto di un progetto non casuale.

La fotografia è diventata un’oligarchia. Lavora chi può già permetterselo. Una sorta di circo dove si parte, si fotografa, forse si pubblica, forse no. Forse si partecipa a un premio, a un concorso, a un festival, a un talk. La grande assente è spesso la vera fotografia, nata da un progetto editoriale.

Il faticoso lavoro di un professionista che vuole sopravvivere è fatto di passione, tenacia, progettazione precisa, originalità. Questi sono gli obiettivi che cerco di avere come fotografa di news, cronaca e reportage. Il mio lavoro è da una parte fondato sulla collaborazione dal 2009 con l’agenzia internazionale Getty Images per quanto riguarda news e cronaca, dall’altra su progetti e collaborazioni personali per reportage più lunghi. Il sistema delle agenzie oggi è necessario e vitale, energia della cronaca.

Proponiamo all’agenzia delle news che possano avere un potenziale valore internazionale e le foto vengono vendute e pubblicate su giornali, riviste e media nel mondo. La vita delle fotografie può andare oltre la cronaca, diventando tasselli di un archivio, racconti futuri. Si può proporre e raccontare un evento da qualsiasi parte del mondo, confrontandoci con gli editor. Oppure è l’agenzia che ci propone degli assegnati. Ma le grandi agenzie adesso sono il bacino dei media, muovendosi per lo più su base locale. In una determinata area c’è un fotografo o una fotografa che è in un certo senso referente, polso della situazione, cercando e trovando quelle news che riguardano una data area e che possono interessare al mondo. L’esercizio della ricerca sotto casa propria di storie internazionali diviene decisivo oggi.

Poi ci sono i progetti personali che diventeranno una mostra, una campagna immagine per aziende o istituzioni. O in futuro libri fotografici o altre forme miste di narrazione.

La decisione di andare in qualche luogo, sia esso Roma, Napoli o l’Afghanistan, dipende semplicemente dalla domanda: c’è una qualche possibilità di pubblicazione? Una domanda necessaria, proprio per l’incredibile quantitativo di immagini disponibile da ogni luogo, sempre. Non basta l’urgenza e il desiderio di partire. Io vorrei il dono dell’ubiquità e del teletrasporto.

Ma, non essendo ancora disponibili, occorre studiare, pensare la reale storia e come essa possa essere raccontata. E scegliere, se partire, come e quanto a lungo. La progettazione è parte della fotografia. La fotografia di cronaca e reportage non deve essere esibizione e autonarrazione del fotografo. La notizia non è il fotografo/a che si trova in quella parte del mondo. Ma la fotografia.

Come si riesce a rapportare la vita di provincia italiana con gli impegni di cronaca internazionale, passando dalla monotonia, a volte apatica della nostra città, alle catastrofi naturali o alla realtà agghiacciante della guerra, oppure agli appuntamenti più fashion del mondo della moda o della cultura?

La fotografia di cronaca e reportage è oggi soprattutto locale, per necessità. Penso che la provincia dia enormi possibilità narrative. Si può andare in profondità, si conoscono bene le maglie del tessuto, le distanze facilitano e le conoscenze supportano la ricerca. Per raccontare non occorre necessariamente andare in Colombia in mezzo ai narcotrafficanti o al fronte.

Io cerco di mescolare i piani, la provincia e le città italiane, e quando possibile, storie più lontane, adattando la mia vita, di donna, alla fotografia. E la provincia non mi annoia, perché dà profondità e uno sguardo laterale. Trovare storie e notizie che altri non conoscono. Ho amato tantissimo la cronaca del quotidiano locale, la sua velocità e l’adrenalina del susseguirsi degli eventi.

Adesso progetto con più cura quali storie seguire e quanto a lungo. Tra cronaca, politica, arte, cultura e ambiente, un tema adesso per me di enorme importanza. La vita è un racconto così complesso e la fotografia concede la possibilità meravigliosa di attraversare mondi sempre diversi. Quello della fotografia penso che sia il lavoro più bello del mondo. E la fotografia è una amica e compagna di vita, c’è sempre, nei momenti di allegria e anche nei momenti più tristi. Anche in quelli cerco di scattare, raccontare, cercare la bellezza.

Ma sempre ovviamente sperando che inventino il teletrasporto, a breve.

Laura, adesso sei una professionista ormai navigata e conosciuta nel mondo della fotografia: come sei arrivata a fare questo lavoro partendo da Livorno e cosa ti tiene ancorata a questa città fatta di forti contraddizioni e di rifiuto atavico della riconoscenza (nel senso di riconoscerne il valore, se non postumo spesso) ai propri figli?

L’amore per la fotografia lo avevo da bambina, guardando, ritagliando, conservando, considerando le fotografie quasi sacre. Poi mio nonno mi ha regalato la macchina fotografica Reflex quando studiavo a Dublino. Ho avuto negli anni due scuole di fotografia, se così posso dire. La Curva Nord del Livorno la domenica allo stadio e la festa dei Gigli a Nola, ogni giugno.

Dopo la laurea in Filosofia a Pisa e il Dottorato di ricerca, luoghi decisivi di formazione dello sguardo, mi fu proposto di lavorare come fotografa per il giornale locale, “Il Tirreno”. Il passaggio dalla fotografia nel cassetto o nell’hard disk, all’importanza di dover raccontare con la macchina fotografica i fatti. Vedere il giorno dopo la tua fotografia sulle pagine del giornale locale è stato decisivo. La narrazione della cronaca locale mi ha insegnato a raccontare la cronaca, trovare le notizie, capire cosa sia una notizia e cosa no, un metodo che poi ho applicato alla cronaca internazionale.

Non sono livornese e mi sono sempre sentita apolide. Ma Livorno mi ha accolta e di Livorno amo la libertà, il disincanto, le sue fortissime contraddizioni. Amo le contraddizioni e questa è la patria dei contrari. Mi tiene legata a Livorno la vita da più di venti anni con Luca, la nostra casina nel porto Mediceo. Mi tiene ancorata a Livorno anche la sua verità. E l’esercizio costante e faticoso di sopravvivere in provincia. Se si riesce qui, si può riuscire ovunque, basta spostarsi.

Ti osservo e mi viene in mente Letizia Battaglia: avete molto in comune a mio avviso, mi sbaglio?

Letizia Battaglia è per me l’ispirazione. La più grande fotoreporter italiana e una tra le più grandi della fotografia. Per me è stata e resterà un riferimento, una maestra ideale negli anni in cui ho iniziato a fare cronaca, e mi incoraggiava quel pensiero. Ma anche successivamente. Lei è rimasta ispirazione, con la sua capacità di inventare la fotografia fino alla fine della sua vita.

L’ho incontrata a Livorno e mi ha concesso anche di fotografarla, un dono bellissimo nel gennaio del 2019, un ritratto di cronaca in déshabillé al Grand Hotel Palazzo. Mi augurerei di avere in comune con lei la ricerca della verità nel flusso degli eventi e di poter avere anche la sua stessa forza, passione, originalità, creatività fino a quando sarò più che ottantenne. Quando è morta Letizia Battaglia ho provato tristezza, perché questa maestra ideale, donna e fotografa… credevo fosse immortale. Ma al tempo stesso ci ha lasciato le sue fotografie, il suo sguardo, su cui tornare a studiare e riflettere, il suo esempio.

Collabori con agenzie internazionali e sei spesso in giro per il pianeta ma sei stata anche occhio locale alla ribalta internazionale. Ci racconti cosa ha fatto breccia all’estero delle vicende livornesi o toscane, portandoci agli occhi di chi a stento sa dov’è Firenze?

A Livorno, incredibilmente, accadono sempre tantissime cose. Questa è una città ad altissima narrazione. Tante fotografie fatte a Livorno sono state tasselli di racconti internazionali. Ci sono stati episodi di interesse ovviamente mondiale, come il naufragio della Concordia, o fotografie legate alla pandemia, in cui l’Italia ha avuto un vantaggio narrativo rispetto al resto del mondo. Quello che si vedeva qui, accadeva prima che altrove.

Una delle prime fila che vidi fuori dei negozi, in una via di Livorno, era diventata una foto emblematica del distanziamento sociale anche negli Stati Uniti, dove le file e le distanze ancora non c’erano. Una foto della Torre di Pisa con l’operatore che disinfettava le superfici a causa del Covid, in quegli incredibili giorni di marzo 2020, era stata considerata simbolica dell’Italia e della pandemia, pubblicata ancora in tutto il mondo. Ma anche il David, gli Uffizi, simboli del mondo. I ritratti di artisti, musicisti superstar, che qui in Toscana ho potuto fotografare con semplicità, talvolta sono diventati ritratti molto pubblicati, portandosi dietro poi la città, la regione, l’evento.

Spesso accade quella che chiamo magia della provincia. Microstorie che diventano parti di un racconto internazionale. Oggi la narrazione fotografica è come un mosaico. Se quel pezzo funziona, puoi averlo scattato anche sotto casa, andrà a comporre il racconto. 


Foto: Laura Lezza / Getty Images

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