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Il popolo della notte. Chi abita la città quando la sera torniamo a casa

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C’è una Livorno sommersa che vive sotto la città illuminata dal sole, un popolo di ombre di cui sappiamo ancora troppo poco. Stiamo parlando degli homeless, i senza fissa dimora che vivono h24 la città pubblica.

Sono circa 50 le persone che ogni sera usufruiscono del servizio di unità di strada svolto da alcune associazioni della città per offrire un pasto serale a chiunque ne abbia bisogno.

Sono prevalentemente uomini, italiani (alcuni anche livornesi) o provenienti da altri paesi europei e africani. Anziani, persone di mezze età, giovani, alcuni davvero troppo per non vivere protetti dalle mura di una casa.

Di giorno camminano tra noi, li avrete visti forse, sono quelli verso cui siamo scostanti, che talvolta facciamo finta di non vedere fingendo di guardare il cellulare. Sono gli stessi con cui certe volte abbiamo paura di incrociare lo sguardo. Il loro è così pesante da sostenere.

Paura, timore, diffidenza. Nei loro confronti adottiamo un atteggiamento difensivo che talvolta porta, purtroppo, all’indifferenza. Così i nostri homeless diventano invisibili.

Ma che cosa accadrebbe se un giorno ci svegliassimo e venissimo catapultati dall’altra parte? O se, semplicemente, provassimo ad affacciarci alla linea di confine del pregiudizio, provando a scorgere cosa c’è dietro?

Potremmo provare intanto a guardarli, osservare i loro volti. Probabilmente scopriremo che sono loro i primi ad avere paura: di essere giudicati, denigrati, colpiti. Di non essere rispettati o semplicemente, trattati come persone. 

A quel punto potremmo provare a parlare con loro. Scopriremmo che hanno storie incredibili, che alcuni prima di approdare nella nostra città vivevano vite agiate, che altri sono laureati. In strada per scelta o per rovina, perché la vita non è andata come avevano pianificato e magari la loro impresa ha chiuso: “ho sessant’anni e la mia attività è fallita. Chi mi assume più ormai?”

Altri ci direbbero che sono sempre stati poveri, che hanno vissuto e attraversato paesi in guerra, che non hanno avuto possibilità di studiare.

Ci racconterebbero che sono padri, figli e mariti, che hanno fratelli e sorelle lontane con cui si sentono quotidianamente o con cui non hanno più contatti.

Una volta instaurato un dialogo, la loro sagoma comincia a definirsi. I loro corpi prendono forma, le cicatrici non ci fanno più paura. I nostri occhi si abituano alla vista di ferite e bende sporche, gonfiori e strane protuberanze fisiche. Continuano a colpirci invece i segni del tempo, che soprattutto sui corpi dei più giovani sono fin troppo marcati.

I loro volti sono diventati identificativi di persone, di personalità. Ci accorgiamo che non si comportano tutti nello stesso modo, che non si tratta più di una categoria uniforme, ma di un vero e proprio spaccato della società in cui ognuno è diverso dall’altro.

Gentili e sorridenti, oppure freddi e sfuggenti. Educati e umili, ma anche arroganti e saccenti.

Alcuni sono più espansivi e hanno bisogno di parlare, di essere ascoltati. Ti raccontano la loro storia, la loro vita e le difficoltà quotidiane: “se non stai attento la notte mentre dormi ti rubano tutto e il giorno dopo sei punto e a capo”.

Altri sono più riservati, al massimo chiedono informazioni di servizio: “Sa come posso fare a stampare il Green Pass se non ho la tessera sanitaria?”

Alcuni di loro si muovono per la città con i loro fedeli amici a quattro zampe. Se ne prendono cura come possono. Un uomo racconta che ha rinunciato ad un posto letto in una struttura perché non avrebbe potuto portare il cane con sé: “è la mia famiglia, non lo posso lasciare”.

Se gli offri un bicchiere di latte caldo preso al bar di fronte o una brioches uniscono i palmi delle mani e chinano la testa ripetutamente per ringraziarti. Altri si lamentano perché avresti potuto lasciargli uno spicciolo in più.

Se ci avvicinassimo, scopriremmo che sono persone molto fragili che hanno bisogno di assistenza, spesso anche sanitaria, anche se non sempre accettano di essere aiutati. Le dinamiche sociali delle persone fragili sono molto complesse.

E allora cosa possiamo fare? Dare luce agli angoli più bui della società sarebbe già un primo grande passo.

La nascita di sensazioni negative di fronte alla presenza di alcune categorie di persone che abitano la città è il riflesso di una società che teme il diverso e soprattutto, che non conosce il diverso.

Educare alla diversità costituirebbe il primo passo per conoscere gli invisibili, combattere la paura e ridurre la nascita di sensazioni di insicurezza ingiustificate.

Le amministrazioni locali, collaborando con gli enti del terzo settore, potrebbero contribuire ad abbattere le barriere del pregiudizio mettendo in campo percorsi di scambio e di scoperta reciproca tra i diversi abitanti della città.

Non esistono categorie invisibili, persone invisibili, nessuno lo è. Sta soltanto a noi scegliere se aprire gli occhi e vedere.

Fonte foto: Lee Jeffries, serie fotografica “Homeless”

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