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Tre cose che le università italiane dovrebbero imparare da quelle americane

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La più grande difficoltà degli universitari italiani non sta nella difficoltà degli esami, ma nel doversi scontrare con un sistema che non vuole cambiare.

Dopo un decennio trascorso nel sistema universitario, questo articolo fa un confronto tra il sistema bostoniano, che sto vivendo adesso, e quello pisano, che ho vissuto negli anni della triennale e della magistrale, con un focus sui corsi di studio ingegneristici. Lo scopo è offrire un modello formativo alternativo a quello che è utilizzato e conosciuto in Italia.

Chiaramente i due sistemi partono da premesse molto diverse: quello statunitense è basato principalmente su università private molto costose e quello italiano sulle università pubbliche.

Tuttavia, se avessi l’opportunità di importare alcune caratteristiche del sistema statunitense in quello italiano sarebbero le seguenti: la flessibilità del corso di studi, la possibilità di fare ricerca durante triennale e magistrale e i tirocini pagati.

Partiamo dal corso di studi: sia per la triennale (che in realtà sono quattro anni), che per la magistrale, nelle università americane è previsto un corso di studi principale – major, in cui va conseguito il maggior numero di crediti formativi – , e uno secondario – minor in cui va conseguito un numero minore di crediti.

Così uno studente che sta prendendo una major in ingegneria potrebbe decidere di prendersi una minor in psicologia o teatro. Inoltre, all’interno dei percorsi di major e minor, soltanto alcuni corsi fondamentali sono obbligatori, mentre gli altri sono a scelta.

Questi due percorsi, che non devono essere collegati, permettono ai giovani adulti di esplorare due macro aree, di ottenere un’educazione più varia e ampia e di diventare persone più complete e complesse.

All’opposto l’Università di Pisa, che per le triennali o lauree a ciclo unico vanta sei macro aree nelle quale si sviluppano circa 70 corsi di studio, prevede (soprattutto nei corsi di ingegneria) percorsi fissi e completamente incentrati sulle materie di indirizzo, lasciando agli studenti pochissima possibilità di distinguersi tra loro e di costruire un percorso basato sui propri interessi.

E se si può pensare che qualcosa stia cambiando con l’approvazione della legge che permette la doppia iscrizione all’università, a mio avviso questo cambiamento lascia sì spazio a percorsi accademici più ampi, ma ancora non riconosce la pluralità di interessi che una persona può sviluppare senza però avere il doppio del tempo a disposizione.

Per quanto riguarda la ricerca, nelle università americane questa è possibile e incoraggiata anche durante la triennale, tanto che in alcune circostanze è riconosciuta attraverso crediti formativi ed è remunerata. Durante l’anno scolastico vengono organizzate giornate in cui i laboratori dell’università mostrano agli studenti le loro sperimentazioni.

Questo sistema offre agli studenti la possibilità di sperimentare l’ambiente della ricerca prima di dover decidere quale percorso intraprendere nel proprio futuro. Niente di più lontano dall’esperienza che ho avuto all’Università di Pisa, dove non mi sono mai stati introdotti i laboratori del dipartimento di cui facevo parte, neanche durante la laurea magistrale.

Per finire i tirocini. Chiamati anche internships, in America solitamente vengono svolti durante l’estate e sono remunerati. Questi danno l’opportunità agli studenti di immergersi per qualche mese nel mondo del lavoro e imparare da una prospettiva diversa da quella accademica, oltre che di guadagnare uno stipendio.

Nelle università statunitensi questa pratica viene estremamente incoraggiata, con personale dedicato ad aiutare gli studenti a trovare il giusto internship, che talvolta è addirittura un requisito per la laurea.

Questo sistema è conveniente sia per gli studenti, che imparano e che hanno l’opportunità di conoscere vari posti di lavoro, sia per le aziende, che possono cercare futuri dipendenti a un costo relativamente basso e con la possibilità di osservare come lavorano.

Almeno a Pisa, non esiste una stretta collaborazione tra l’Università e le aziende e non esiste nessun aiuto per trovare lavori temporanei in imprese allineate con quello che si sta studiando.

Non solo. Se anche uno studente riuscisse a trovarsi da solo un’esperienza di questo tipo, questa non verrebbe riconosciuta a livello di crediti formativi e gli farebbe perdere almeno una sessione di esami, dato che soltanto il mese di agosto è libero dagli esami.

Ingegneria deve essere difficile’ disse uno dei più noti professori del Dipartimento dell’Informazione di Pisa. E se la difficoltà accademica è quella a cui si pensa d’istinto, si tralascia spesso il fatto che un’altra grande difficoltà è scontrarsi con un sistema che non vuole cambiare.

Quello italiano si basa infatti sull’idea che così è sempre stato e così deve essere, non riconosce le differenze fra una generazione e la successiva, privilegia uno studio puramente teorico alla sua messa in pratica, e, in definitiva, fa uscire dal portone del Polo A di Via Diotisalvi degli ingegneri che, senza aver acquisito conoscenze oltre a quelle teoriche, devono sperare di riuscire a salvarsi da soli.

Foto di Sara Pix

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