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A Baruch, livornese sommerso ad Auscwitz

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Contributo inviato da Rocco Garufo in occasione della giornata della memoria.

Fra i “sommersi” di Auschwitz troviamo Baruch, livornese, di mestiere scaricatore di porto
Baruch non morì perché più debole rispetto ai sopravvissuti, o per aver rinunciato alla lotta, ma per l’esatto contrario. Rispose fermamente alla truce violenza nazista. Prese a pugni un sorvegliante che lo aveva colpito e venne massacrato brutalmente da tre “Kapos” del campo. Morì per non avere rinunciato alla propria libertà e personalità, ai propri valori che gridavano di non lasciarsi sopraffare. Insieme a lui tanti altri che decisero di restare uomini di fronte alla disumana barbarie dei nazisti. Nei campi di sterminio, prima di venire trucidati, i deportati erano destituiti di qualsiasi residuo di umanità attraverso torture e vessazioni atroci, con la riduzione in schiavitù e quanto di più abominevole poteva essere perpetrato a danno di un essere umano.

Molti internati al fine di salvarsi si lasciarono trascinare verso gli inferi e accettarono il metodo della sopraffazione sui più deboli. Accettarono, in sostanza, di lasciarsi degradare dal punto di vista umano pur di sopravvivere. È questa una delle spaventose verità contenute ne “I Sommersi e i Salvati”, l’ultimo lavoro di Primo Levi. Un libro “tremendo”, che costringe ognuno di noi a fare i conti con quanto di più oscuro, infimo e deteriore potrebbe celarsi nel fondo del nostro essere. Una verità che forse è risultata insostenibile allo stesso autore, se l’anno dopo la sua pubblicazione si toglierà la vita.

Primo Levi ci ha fatto capire quanto il male sia qualcosa che non si può catalogare attraverso categorie manichee, non è mai bianco o nero, non sta sempre e solo da una parte, ma è insito nell’essere umano. Per quanto è bene essere chiari che il nazismo sia il male peggiore apparso nella Storia, esiste tuttavia una zona grigia nella quale si annidano ambiguità, reticenze, complicità, opportunismi, che hanno contribuito non poco all’affermazione del nazismo. È la mostruosa e terrificante “banalità del male”, personificato in uomini “normali”, come potremmo essere noi che al caldo delle nostre case, comodamente seduti su un divano a guardare un film o un documentario sulle stragi naziste, non avremmo alcuna esitazione a stabilire da quale parte stare, inconsapevoli che nella realtà le scelte e i comportamenti dipendono da variabili fuori dal nostro controllo. Ignari di quanto fosse mostruosamente enorme la pressione che uno Stato totalitario riusciva ad imprimere sugli individui. Un complesso gigantesco di potere edificato sulla violenza sfrenata e la delazione, al fine di assoggettare gli uomini mediante il “terrore”, ciò che Hannah Arendt definiva essere l’essenza del totalitarismo. Perciò, se era quasi impossibile essere degli “eroi”, era altrettanto difficile avere persino un minimo di coraggio.

Il male può essere dentro di noi e per questo che non è mai definitivamente sconfitto e può ripresentarsi. “E’ successo, quindi può ripetersi” affermava lo stesso Levi. Cosa fare allora per impedire che si ripresenti? La memoria è certamente uno degli antidoti più efficaci. Ma è lo stesso autore a metterci in guardia dalle soluzioni facili. La memoria ha le sue tortuosità, le sue insidie. Tende a selezionare, a rimuovere ciò che è spiacevole, ciò che costringe a fare i conti con quello che non vogliamo ammettere. Rischia di diventare sterile, specialmente quando se ne abusa nel discorso pubblico dilatandone la dimensione della retorica. Ma sopra ogni altra cosa come può la memoria salvarci da qualcosa che, se dovesse ripresentarsi, non assumerebbe certamente le sembianze del nazismo di Hitler e Mussolini?

Oltre alla memoria abbiamo bisogno della Storia come disciplina di studio del passato, delle sue analisi e della conoscenza diffusa di essa. Abbiamo bisogno dell’istruzione e della cultura, abbiamo bisogno di società innervate da un tessuto coeso e solidale. Abbiamo bisogno di educare i nostri figli al gusto della libertà e dei suoi costi: il senso del dovere, la responsabilità, il sacrificio, la reciprocità. . .

Abbiamo bisogno di fare tutto questo in un tempo in cui la privazione della libertà può ripresentarsi sotto le forme indolori e accattivanti di una dorata gabbia consumistica. Dove la violenza assume il connotato incorporeo, ma non per questo meno brutale e condizionante, dei linciaggi sui social media. Dove la pressante domanda di sicurezza giustifica forme sempre più pervasive di sorveglianza e controllo. Dove la sfera privata, quella che i totalitarismi annullano per massimizzare il dominio sugli individui, ormai non esiste quasi più per la nostra stessa volontà di mettere alla ribalta i contenuti più intimi della nostra esistenza.

Abbiamo bisogno ancora di Primo Levi e dei suoi scritti, dei suoi insegnamenti, de “I Sommersi e i Salvati”, che non è un semplice libro di memorie, ma un “vademecum”, una guida che ci conduce negli angoli più oscuri delle nostre coscienze, che illumina i meccanismi del potere, che mostra quanto in basso può cadere l’uomo quando è guidato da ideologie irrazionali e violente come il nazismo.

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