Parliamo di politica, più o meno seriamente.

Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

Parliamo di politica, più o meno seriamente.
Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

Il grande Gatsby

Condividi

Facebook
Twitter
Telegram
WhatsApp

Un nuovo contributo inviato da un nostro lettore. Rocco Garufo ci racconta “Il grande Gatsby”.

Che bello rileggere un classico. Per me i libri hanno qualcosa di magico. Hanno un’anima e una vita propria. Un libro non si legge e basta, non si tira fuori dallo scaffale sfogliandone le pagine dalla prima all’ultima e poi si ripone. Con un libro si costruisce una relazione. Un rapporto profondo con i personaggi e il mondo che contiene. Ogni libro mi chiama quando vuole essere letto, come facevano le sirene con Ulisse, non sono io a scegliere lui. Così, dopo venti anni mi sento richiamare da “Il grande Gatsby,” il capolavoro di Fitzgerald, come se ritrovassi un vecchio amico col quale ci eravamo persi di vista.

Proprio come un vecchio amico, ho l’impressione che il romanzo sia cambiato col tempo, cresciuto e maturato insieme a me. Rileggendolo, oltre all’emozione di una prosa sublime, trovo lo spaccato di una società e lo spirito di un’epoca piena di fascino e di contraddizioni. Aveva ragione Italo Calvino: “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire. . .”

Il Grande Gatsby è sopra ogni cosa la storia di un grande amore. Un amore immenso e tragico, che morirà irrealizzato, represso dalla freddezza disumana dei meccanismi sociali della disuguaglianza. Jay Gatsby vive in questo amore e per questo amore. Un sentimento totalizzante, puro ed elevato, che alimenta la sua forza e la sua vita e lo illude nel sogno di riportare indietro il tempo.

Gatsby è ricchissimo. In un’epoca di anni ruggenti e spregiudicati ha accumulato una ricchezza enorme, opaca e repentina, la cui provenienza è alquanto dubbia. Ma la sua è una ricchezza vistosamente pacchiana e sgraziata, da“parvenu”, e come tale non sarà mai accettato nell’America benpensante dei grandi clan familiari, dove patrimoni e potere si trasmettono lungo le traiettorie del lignaggio. Quell’America dalla quale Daisy, la donna che ama, non sarà capace di staccare il cordone ombelicale, pagando il prezzo carissimo dell’infelicità ad una sicurezza “borghese,” egoista e amorale, piena di nevrosi e ipocrisie.

L’America dell’ ”età del jazz” e dei “ruggenti anni venti” vive condensata nello spirito che aleggia alle feste di Gatsby. Appuntamenti sontuosi, messi in scena sugli altari dell’eccesso e dello spreco, dove lo Champagne veniva usato per sciacquarsi le dita o frizionare i capelli. Un lusso traboccante, sfoggiato con gusto volgare e pittoresca manifestazione di potenza. Un’ America giovane, vitale e possente, ipnotizzata nei riti dell’autocelebrazione, che nel giro di vent’anni sarebbe diventata una superpotenza mondiale, leader di tutto l’occidente. E tuttavia, un Paese che ha il suo ventre molle, del quale Fitzgerald ci racconta una fibra morale in via di decomposizione.

Un’America maledettamente vicina all’America di oggi. Un Paese corroso dall’insicurezza e da un livello abnorme nelle disuguaglianze di reddito e opportunità. Dove gli “animal spirits” del turbo capitalismo, lasciati a se stessi, hanno condotto il mondo dentro una delle crisi più gravi conosciute dal 1929. Dove il successo personale è condizione della famiglia di provenienza: “il clan,” con le sue risorse di potere, prestigio e ricchezza accumulata.

Non è un caso che oggi, gli economisti liberal, abbiano definito la correlazione negativa fra disuguaglianze di reddito e distribuzione delle opportunità, come la “Curva del grande Gatsby.” Una condizione che ha trasformato il sogno americano delle pari opportunità, nell’incubo di un paese dove i confini sociali sono protetti con il filo spinato del lignaggio e della stirpe e sta frantumando il patto sociale che ha reso gli Stati Uniti un grande Paese.

Le feste di Gatsby avevano il sapore degli antichi baccanali, inscenati per esorcizzare la paura del nulla. Come sciami di falene naufragate nell’estasi della luce, gli ospiti dei suoi party danzavano ebbri sull’orlo dell’abisso. Quell’abisso molto presto sarebbe arrivato, trascinando dietro di se il mondo intero. La crisi del 29’; il fascismo e il nazismo; l’orrore dei campi di sterminio; la tragedia della seconda guerra mondiale…

Oggi stentiamo a capire se stiamo ballando sul ciglio di un abisso, o siamo immersi dentro una depressione lunga e cupa, un cono d’ombra che sembra erodere speranza e fiducia e, peggio ancora, la possibilità di uscirne con i mezzi che la politica e la democrazia ci mettono a disposizione. È proprio dentro questo cono d’ombra che alligna il populismo truculento di Donald Trump, il razzismo e la voglia di sbarrare i confini di Marine Le Pen e Salvini, il revanscismo della destra filonazista in Europa, l’antipolitica dei 5 stelle.

Rileggere un capolavoro del passato ci fa capire quanto i classici siano eterni e insieme figli del loro tempo. Leggerli ci regala la consapevolezza che il tempo di cui sono figli è anche nostro padre, come ci ricorda lo stesso Fitzgerald: “Navighiamo di bolina, barche contro la corrente riportati senza posa nel passato.”

Ultimi articoli