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La resilienza. Moda passeggera o egemonia liberista

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Articolo inviato alla redazione da Rocco Garufo. (La mail per inviare articoli alla Redazione è redazione@fuoricomeva.it)

“Ultimamente mi ha colpito la frequenza con cui molte persone utilizzano nel loro vocabolario la parola “resilienza”. È diventata quasi una moda, con il termine che di volta in volta assume il significato di forte, tenace, “ganzo” e così via.  Ma in realtà che cosa significa resilienza, quale è la sua origine e per cosa si usa?

Resilienza è un concetto che proviene dall’ambito delle tecnologie meccaniche e indica l’attitudine di un materiale, solitamente l’acciaio, a riprendere la sua forma iniziale in conseguenza di un urto. Si misura con la quantità di energia cinetica che nei test di laboratorio è in grado di assorbire un corpo trasformato in una provetta meccanica. Questo test, insieme alle prove di durezza, di trazione, di flessibilità e altro ancora, serve per capire a quale utilizzo è possibile destinare un determinato materiale.

Nel tempo il concetto di resilienza è stato esteso alle scienze umane e sociali e viene applicato agli individui, alle imprese, a soggetti collettivi, a città e territori. Il significato di fondo è grosso modo lo stesso della fisica: la capacità di assorbire gli urti e rialzarsi dopo un momento difficile; oppure la qualità di saper trasformare i vincoli di una crisi in opportunità di rilancio.

Al di là del significato che può apparire simile, seppur applicato in ambiti completamente diversi, la domanda che mi pongo è la seguente: perché utilizzare per gli esseri umani e per le formazioni sociali un concetto mutuato dalla meccanica? Per quanto le scienze sociali si sforzino di essere avalutative, ogni termine che utilizzano non è mai totalmente neutro, ma contiene un fondo dove si cela un giudizio e una visione dell’uomo e dei rapporti sociali nei quali si svolge la sua esistenza. E questo vale anche per il concetto di resilienza.

L’origine di derivazione fisico-meccanica lascia presupporre che la concezione della società sottostante sia frutto di una visione atomistica e individualizzata, come nelle classiche rappresentazioni neo-liberiste. Un’immagine di società dove gli uomini e le formazioni collettive sono gli ingranaggi di un sistema di relazioni fondato sul mercato, regolato da leggi “naturali” e immodificabili, nel quale l’unico movente che spinge e spiega l’azione umana è la ricerca del profitto. Una visione artificiosa e semplificata, dalla quale il conflitto sociale viene espulso a favore della competizione individuale; lo sfruttamento dell’uomo e della natura diventa un’ inderogabile necessità economica; la disuguaglianza diventa un dato ineliminabile dalla dimensione sociale, tale da rendere inutili e persino dannose politiche pubbliche a favore della redistribuzione del reddito e del potere.

Forse non è un caso se proprio negli anni in cui il capitale finanziario ha completamente avvolto il mondo nelle trame della globalizzazione e l’ideologia liberista sembra godere di un’egemonia incontrastata, che proliferano le proprietà meccaniche dei corpi come etichette per definire i comportamenti individuali. Il mercato richiede flessibilità; la competizione sociale impone durezza; i sistemi di potere desiderano la malleabilità; la società invece ci vuole resilienti.

Naturalmente, in un contesto simile, dove tutti siamo flessibili, ma anche sradicati e corrosi dall’insicurezza; duri e spietati, ma allo stesso tempo fragili e sigillati nella solitudine; malleabili, ma alienati e dominati da forze fuori dal nostro controllo, si finisce per diventare schizofrenici e ammalati dello stress causato dall’usura, cioè l’obsolescenza dovuta all’attrito delle parti meccaniche in movimento.

Il fatto è che se gli individui potessero contare su un tessuto sociale più coeso e solidale, insieme a politiche di welfare dotate di maggiore efficacia, forse sarebbe più facile per loro essere “resilienti”.

Ma à altrettanto evidente che, di fronte al dominio dei processi economici sui bisogni sociali, della dimensione individuale su quella collettiva, troppo spesso la politica è rimasta “balbuziente”, se non proprio muta, pensando di poter trasformare la solidarietà in “carità” e delegando ogni risposta sulle fragili spalle del singolo individuo.

Forse sta tutto qui il paradosso della politica nell’epoca della globalizzazione e il coacervo di inquietudini che attraversa molte società contemporanee: nel caricare gli individui di responsabilità che vanno oltre le loro possibilità di risposta; nel pretendere dai singoli soluzioni che non sempre spettano loro; nell’incapacità di costruire risposte collettive ai problemi collettivi”

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