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10 gennaio 2016. Major Tom torna nello spazio

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Nelle sfumature di verde e nero, affioravano le capacità di un talento sconfinato. Fu George Underwood a provocargli una midriasi permanente, con un cazzotto nell’orbita sinistra durante la loro militanza nei “The Kon-rads”, per una ragazza nel 1962. E per me quello è sempre stato il simbolo del Duca Bianco. Ricordarlo oggi mi provoca una strana sensazione. Surreale.

Proprio nel dualismo focale delle sue pupille, ho sempre intravisto una duplice personalità. Bowie era sempre distinto, nobile quasi regale, nelle apparizioni pubbliche, nelle interviste. Ed a questo tipico portamento “british” da baronetto, accostava una personalità eclettica, esplosione tracotante di suoni, immagini, storie, eccessi, ambiguità sessuale.

Sì perché prima di cantare canzoni, David Bowie raccontava storie. Sempre impregnate di fantasia e meraviglia. Proprio come quello a me più affezionato: Ziggy Stardust. Un po’ Bowie un po’ Iggy Pop (che aveva conosciuto nel 1971), un po’ Velvet Underground, un po’ Marc Bolan. Ziggy era il prodotto del maggiore periodo creativo di Bowie. Un alter-ego ragazzino divenuto rockstar, capace di salvare il mondo in apocalisse, insieme agli “Spiders from Mars”.

Nei fumi lisergici degli anni ’70, Ziggy penetrò a fondo nella personalità del Bowie ragazzo, denudandone la personalità. Ho sempre creduto che questi personaggi fossero delle sfaccettature del carattere di Bowie, e che li usasse per esprimerle al meglio. Ma poi, stando alle sue dichiarazioni, finivano per incatenarlo. Ed allora per noi è sempre stato difficile capire la differenza, il filo teso a dividere l’artista dall’arte. Bowie era “Major Tom” un anno prima, quando si chiuse dentro una tuta da astronauta, e proiettò il mondo nello spazio. Proprio mentre l’Apollo 11 scaldava i reattori, Ray Bradbury scriveva di fantascienza e “2001: Odissea Nello Spazio” faceva sognare il pianeta.

Vestiva la propria anima, calzando i propri personaggi. Ma poi erano loro a vestirsi di Bowie. Complice (per quegli anni) la normale ed ordinaria dipendenza da ogni genere di stupefacente, l’arte sfigurava l’uomo, incapace di allontanarsene definitivamente. L’unica soluzione era creare qualcun altro e qualcun altro ancora.

David Bowie si liberò di Ziggy nel 1973, proprio mentre “The Man Who Sold The World” affascinava il mondo e la bellissima “Life on Mars?” macinava posizioni in classifica. Lo spirito artistico del ragazzo di Londra aveva bisogno di un nuovo alter-ego. Ed allora nel tempo arrivarono il riflessivo Halloween Jack, lo spocchioso minimal ed elegante The Thin White Duke e Nathan Adler, ultima creazione dell’album “Outside” del ‘95. Un gruppo di personalità differenti per ciascuna creazione, una necessità di veicolazione artistica. Questa bipolarità continua è poi espressa nella famosissima “Changes”, emblema di un bisogno continuo di dinamismo, trasformismo che cercava in qualsiasi modo di sopperire. Apparentemente pop, nasconde una lettura ben più profonda.

Non intendo ricordare troppo i brani noti a tutti. Rimarcare la storia degli album più fortunati sarebbe puro cliché. Quello che deve esserci chiaro delle canzoni di David Bowie è rappresentato dalle migliaia di citazioni all’interno di album, tracce, assoli e parole. In “Changes” c’era un richiamo agli WHO con il suo ch-ch-ch iniziale, proprio come “My Generation”, “Rock ‘n’roll suicide” era un riferimento ai canti andalusi di Manuel Machado ed al poeta maledetto Baudelaire. “The Man Who Sold The World” è un continuo omaggio a Nietzche.

“..a million dead-end streets”.. Oggi che rifletto su quanto sia stato in grado di esprimere, penso a quanto in realtà sia riuscito a canalizzare della sua personalità. Chissà quanti progetti siano rimasti inespressi e quanti invece siano stati tatuati nella storia.

Penso a quando quelle palpebre si sono chiuse per l’ultima volta. Nascondendo entrambe le pupille. Sia quella regale e compassata, sia quella colorata d’estro, di magia. E ripenso ad un balletto sotto la pioggia insieme a Mick Jagger, un ricordo per l’amico Freddie Mercury quando a cantare “Under Pressure” su quel palco c’era Annie Lennox e quella faccia tinta da un fulmine rosso. Penso ad un uomo che arrivava da un altro pianeta, ci ha raccontato storie, ed oggi riparte verso le stelle.

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