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L’Italia dei silenzi

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“Vorrei fare un appello. Ci sono rappresentanti delle istituzioni che sono certamente coinvolti in questo caso. Chi sa, parli. Si abbia il coraggio di assumersi le proprie responsabilità. Questo Stato non può sopportare una violenza impunita di questo tipo.”

Queste sono le parole del Presidente del Senato Pietro Grasso. Giudice a latere del processo del primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Poi procuratore aggiunto a Palermo e Firenze, dove si occupa delle stragi del 1992 e 1993. Infine, Procuratore Nazionale Antimafia dal 2005 al 2012. Di segreti e silenzi lui sì che se ne intende. Questa volta, però, Grasso non ce l’ha con pentiti, né con imputati per associazione a delinquere, anche se – tornate in alto e provate a rileggerle – quelle parole potrebbero essere tranquillamente riferibili a loro. Ce l’ha con uomini dello Stato. Poliziotti, infermieri, medici, magistrati, guardie carcerarie. Chiunque, in quelle notti che vanno dal 15 al 22 ottobre 2009, abbia avuto contatti con Stefano Cucchi nel carcere di Regina Coeli.

Chi sa, parli, quindi. Dica cosa ha visto, se lo ha visto. Cosa ha sentito, se lo ha sentito. Si faccia avanti. Questo chiede Pietro Grasso. “Ho sempre cercato Verità e Giustizia e continuerò a cercarle da questo scranno”, queste le sue parole nel giorno della sua elezione a Presidente del Senato. Dobbiamo dargliene atto, per adesso mantiene l’impegno. Lui è la seconda carica dello Stato, ma non si perita a chiedere che si faccia verità.

E poi, ieri sera, vedo Ilaria Cucchi in tv, a Ballarò. Lucida, anche troppo. Provo quasi invidia – anche se c’è poco da invidiare alla situazione della famiglia Cucchi – per la sua forza, la forza con la quale si presenta davanti alle telecamere. Come se niente fosse. Come se raccontare di come ti hanno ammazzato il fratello sia la cosa più naturale al mondo. Ignora politici quali Giovanardi (che continua imperterrito a perdere tutte le occasioni per tacere) e tutti quelli che con lui andavano a braccetto. Mantiene la compostezza davanti alle domande dei giornalisti. Sempre le solite, che martellano come tamburi. Che girano il coltello della piaga, quella che fa male, quella del dolore. Lei lo dice chiaramente, senza troppi giri di parole: “Il processo lo si è fatto ad un morto, mio fratello. E sulla mia famiglia. Non su chi l’ha ucciso”. Chiama in causa la Procura di Roma, chiede se può ritenersi felice del proprio operato in fase di istruzione del processo. Ma dice anche di essere quasi soddisfatta – anche se la verità mai potrà ripagarla della violenza subita – perché tutti in Italia oggi sanno che lei aveva ragione. Aveva ragione quando sosteneva che suo fratello era stato pestato e non era caduto dalle scale, come andavano dicendo gli altri. La sentenza lo dice. Ilaria continua: snocciola date, fatti. Pone domande. Immancabile la gigantografia di suo fratello che porta ormai dappertutto.

E allora vorrei essere lì – come credo tanti – per poterle dire “vedrai, chi sa parlerà”. Perché il tempo stringe, è vero, c’è il rischio che si arrivi in prescrizione prima della Cassazione – perché i capi di imputazione, “lesioni aggravate”, prevedono una prescrizione più breve rispetto ad altri crimini più gravi – ma, vedrai, che prima di tale termine le cose prenderanno la piega giusta. Perché non può essere che così e sarebbe davvero una vergogna se non si arrivasse nemmeno al terzo e ultimo grado di giudizio con una condanna che non lasci nessuna violenza impunita. Se, dopo essere caduto il segreto sul come è morto Stefano Cucchi, non si scoprissero chi siano i responsabili. E allora vedrai, cara Ilaria, che chi sa parlerà. Lo farà, perché non riuscirà a portarsi dentro questo segreto per sempre.

Ma poi ho come un dejavù. Mentre passano i titoli di coda di Ballarò e mi appresto ad andare a letto, mi vengono in mente tutti gli altri. Federico Aldrovandi, per il quale, secondo qualcuno appartenente ai sindacati di Polizia, la madre dovrebbe vergognarsi di averlo messo al mondo. Per il quale – sì, vero – si è arrivati ad una condanna dei poliziotti, ma non per omicidio (e nemmeno colposo), bensì per “eccesso colposo di utilizzo delle armi”. In pratica 3 anni e mezzo di carcere, condonati per la maggior parte grazie all’indulto. Oppure quello di Giuseppe Uva, morto in un reparto psichiatrico dopo aver passato 3 ore – come dirà l’on. Luigi Manconi di “A buon diritto” – “in balìa di una decina di uomini tra carabinieri e poliziotti all’interno della caserma di via Saffi”. Con il dubbio che possa aver subito anche violenze sessuali.

E poi mi viene in mente Giuseppe Pinelli, l’anarchico ferroviere che la sera del 15 dicembre del 1969 muore dopo essersi gettato dalla questura di Milano. Suicidio o omicidio? Dopo tanti anni e indagini senza esito molto probabilmente non sapremo mai la verità. Certo è che Pinelli era trattenuto da 3 giorni in Questura, senza prove, e interrogato ad oltranza. Sono passati tanti anni, erano gli anni delle stragi e del terrore. Ma la sua morte non meriterebbe di essere dimenticata.

Infine, mi vengono in mente tutti i morti di mafia. Bambini, donne, uomini. Tantissimi per essere ricordati. Altrettante famiglie con tante domande e pochissime risposte. Tra tutte le storie, ce n’è una che nell’Italia dei silenzi (e dei segreti) mi ha impressionato per la forza silenziosa di chi la portava avanti. Quella di Vincenzo Agostino, papà di Nino (Antonino), uno dei “ragazzi” che sventò l’attentato dell’Addaura al giudice Falcone e al quale il magistrato era molto affezionato. Lo hanno ucciso il 5 agosto 1989 dei sicari non identificati, insieme alla sua compagna (incinta), mentre passeggiavano sul lungomare. Il padre, Vincenzo, aspetta ancora la verità – coperta da segreto di Stato in quanto Nino era agente segreto – e la barba ha deciso che non la taglierà fin quando giustizia non sarà fatta. Sono passati 25 anni e la barba sta sempre lì. Lo segue ovunque come una cicatrice ti ricorda un incidente, la barba gli ricorda (e ricorda a tutti) di suo figlio, anche quando vorrebbe pensare ad altro. La mattina davanti allo specchio e la sera prima di andare a dormire, con il rischio di dare soddisfazione agli assassini. Ma a lui questo non importa.

E, visto che di storie di mafia il Presidente del Senato ne ha conosciute tante, ripenso alle parole di Grasso: “Chi sa, parli”. E poi penso al coraggio e alla tenacia di Ilaria Cucchi. Alla sua speranza.

Chi sa, parli. Oppure taccia per sempre, che forse gli conviene.

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