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Partenza Kobane, arrivo Livorno. Due chiacchiere con Luciano Tirinnanzi

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Luciano Tirinnanzi è nato a Livorno nel 1979. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all’Università di Pisa, dal 2005 vive e lavora a Roma. Giornalista professionista, è direttore responsabile della rivista di geopolitica LookOut News. Collabora con il settimanale Panorama ed è autore del romanzo “Crepi quel lupo!” (Robin edizioni).

Ciao Luciano, questa intervista nasce da un botta e risposta su Fb, a proposito della crisi ucraina, mi pare di ricordare. Al momento la situazione sembra, e lo sottolineo, in via di parziale risoluzione negoziale.

La crisi che tiene banco è quella dell’ISIS. Puoi farci un’immagine, un inquadramento dell’ISIS? É una mera organizzazione terroristica, come Al-Qaeda, o una vera entità statale/parastatale?

Ci sono alcune contiguità, ma Al Qaeda aveva ambizioni terroristiche e puntava tutto sull’ideologia e il camuffamento. Invece, le milizie jihadiste sunnite che hanno preso il nord dell’Iraq e una fetta importante della Siria, si fanno chiamare “Stato Islamico”, segno inequivocabile che intendono costituirsi come una vera e propria entità statuale. E, in parte, ci sono già riusciti. Si cadrebbe in errore a ritenere che nei territori occupati si viva senza regole e sotto l’anarchia delle armi. Al contrario, dalla proclamazione della nascita del califfato il 29 giugno 2014, queste terre sono saldamente governate sia a livello amministrativo, politico che giudiziario dal pugno duro del Califfo, che detiene un potere assoluto basato sulla sua idea di Sharia, e da una casta di militari professionisti, in gran parte provenienti dall’esercito di Saddam Hussein.

Inoltre, IS si è dotato d’istituzioni tangibili come il Consiglio della Shura e di ministeri per l’economia e le finanze, che coordinano anche gli scambi del petrolio sul mercato. Esiste poi una lunga catena di comando che parte anzitutto da due luogotenenti, uno per la Siria e uno per l’Iraq, i quali governano le molte province in cui si suddivide il Califfato. A capo delle singole province ci sono altri governatori, che si avvalgono localmente di giudici che emettono sentenze, regolano i contenziosi, dispongono leggi e infliggono condanne attraverso la polizia religiosa (che a sua volta gestisce il territorio capillarmente e controlla che tutto si svolga effettivamente secondo i dettami della Sharia). Alla cittadinanza sono persino assegnati alimenti, medicine, documenti e lasciapassare col timbro dello Stato Islamico, mentre ai soldati ogni mese viene erogato uno stipendio. Dunque, IS si comporta come un vero e proprio Stato.

Ovviamente, essendo in guerra, tutto è ancora molto precario, ma il tipo di organizzazione e le speranze dei miliziani preludono alla nascita di un nuovo Paese. Non abbiamo a che fare solo con fanatici religiosi assetati di sangue, come vengono dipinti. Non sono affatto degli sprovveduti.

Pensi che avrà ripercussioni sulla questione israelo – palestinese? Alcuni analisti pensano che la ferocia dello Stato Islamico convincerà Hamas a smarcarsi dall’estremismo islamico per rendersi credibile come interlocutore. Concordi?

Penso che il problema della Palestina sia unico nel suo genere e non sia ascrivibile a nessun altro contesto, se non a quello locale. Non credo che né lo Stato Islamico né tantomeno l’Occidente potranno mai avere una reale influenza – positiva o negativa – su quanto accade nei territori palestinesi. Perché la Palestina ottenga risultati tangibili, la soluzione può essere trovata soltanto tra il governo di Tel Aviv e un autorevole rappresentante di Al Fatah (che per me è Marwan Barghouti, autore della prima Intifada, da anni in carcere e l’unico in grado di mediare con Hamas). Gli agenti esterni a Israele e Palestina porteranno solo altri guai.

Dal punto di vista strettamente egoistico occidentale, ritengo auspicabile un maggior coinvolgimento turco, nel combattere l’IS, rispetto a quello iraniano. Per questo ho accolto con favore la notizia di poche ore fa, secondo cui la Turchia ha aperto le frontiere per sostenere lo sforzo cursore a Kobane. Che ne pensi? Quale potenza regionale gestirebbe meglio la situazione?

Penso che la Turchia stia solo facendo il doppio gioco. Per Ankara il nemico numero uno resta Bashar Al Assad, il presidente siriano. Poi vengono i curdi, contro cui la Turchia combatte da decenni perché non vuole concedere loro né vera autonomia né indipendenza, perciò li ha tacciati di terrorismo. Solo dopo viene lo Stato Islamico, con il quale il governo turco ha dialogato in passato e con cui tuttora mantiene un ruolo quantomeno ambiguo (stessa cosa si può dire per Arabia Saudita e Qatar). Detto questo, Iraq e Siria potrebbero anche non esistere più in futuro, per cui il punto è: vale ancora la pena difendere un territorio disegnato dall’Occidente quasi un secolo fa e che nessuno desidera veramente? Penso di no, penso invece che intanto si debbano separare i sunniti dagli sciiti. In ogni caso, questa è una guerra loro e loro devono decidere, noi occidentali non c’entriamo proprio niente.

I raid aerei si sono dimostrati poco risolutivi. Alla fine andremo verso un’operazione di terra, “boots on ground”? Magari, e sarebbe auspicabile, con un coinvolgimento importante di truppe arabe (o comunque islamiche) che abbiano la benedizione politica della Lega Araba? Prendendo come modello quello delle missioni di peacekeeping dell’Unione Africana in Somalia? (nel senso che l’Occidente non è coinvolto con truppe proprie)

La Lega Araba è solo una brutta imitazione delle Nazioni Unite, che già di per sé è un’istituzione nobile negli intenti, ma del tutto inutile e inefficace nella realtà. Non mi aspetterei niente di buono né dall’una né dall’altra organizzazione. Solo gli Stati Uniti, e forse l’Iran, potrebbero teoricamente sconfiggere sul campo le armate di Al Baghdadi. Ma il problema vero è: cosa fare dopo? Se prima i governi coinvolti non riescono a rispondere a questa domanda, non ci sarà mai pace in quella regione e qualsiasi soluzione sarà inefficace. Barack Obama aveva la storica possibilità di risolvere la crisi in Siria con l’aiuto della Russia di Putin, fatto che avrebbe prevenuto l’ascesa dello Stato Islamico e avvicinato le due superpotenze, ma ha preferito sfidarlo (vedi l’Ucraina) e ora siamo a questo punto.

L’attivismo del Califfato, ha effetti destabilizzanti su un Paese nostro dirimpettaio: la Libia, al momento in piena guerra civile, con un inesistente governo civile e un debolissimo “governo” militare concorrente, quello del Generale Haftar, sostenuto dal collega egiziano Al-Sisi. Otre al problema immigrazione, quali problemi potrebbe creare al nostro Paese l’instabilità della nostra ex colonia?

Anzitutto, energetici. Chi è oggi il nostro interlocutore? Da chi dobbiamo comprare il petrolio? E che ne sarà delle commesse vinte dalle aziende italiane per costruire autostrade, impianti industriali, raffinerie? Con quale governo esattamente dovremmo trattare? Al momento ce ne sono almeno due e mezzo, di cui uno molto ostile e che tra l’altro si dichiara affiliato al Califfato. Il rischio che anche la Libia si divida è concreto.

In generale, siamo alle soglie di un grande cambiamento in Africa e Medio Oriente. Sono del tutto saltati gli equilibri del secolo scorso, quando fu decisa la spartizione del mondo e le relative sfere d’influenza. Quel tempo è finito, e in questo nuovo millennio Africa e Medio Oriente pretendono un posto diverso nella storia. L’Occidente, del resto, è in declino e non ha più la forza di un tempo per contrastare queste spinte centrifughe. Temo, tuttavia, che nel medio termine ci ritroveremo con piccoli Stati divisi e livorosi, dove a garantire la calma ci saranno solo i contractor, ovvero società di militari privati che guadagneranno miliardi per la difesa di questi luoghi, ma che verosimilmente creeranno ancora più odio e rancore tra la popolazione locale. Fino alla prossima sollevazione.

In tutto questo, c’è spazio per una credibile, autonoma, importante politica estera italiana?

Poveri noi. Matteo Renzi è molto ambizioso e vorrebbe contare qualcosa sullo scenario internazionale, anche per questo si è battuto come un leone per imporre Federica Mogherini nel ruolo di Alto Rappresentante UE. Ma, purtroppo per lui (e per noi), la politica estera europea non dipende né da Roma né da Bruxelles. Anzi, la politica europea non esiste proprio, figuriamoci quella italiana. In questo, il mondo non è cambiato e siamo ancora schiavi delle scelte sbagliate di chi ci hanno legato a vita agli americani. I quali non imparano mai dalla storia, ma conoscono perfettamente il significato di “divide et impera”.

Sei livornese, quindi la domanda sulla città tocca anche a te come è toccata a Eva, con un vantaggio per te: puoi darci una lettura sul perché il centrosinistra ha perso le elezioni dopo anni e anni di governo? Che ne pensi del Sindaco Nogarin e della maggioranza M5S?

La nausea per la mala gestione del Comune di Livorno è arrivata anche a Roma. Immagino che i livornesi abbiano semplicemente detto “ma te lo vai in dòmo” al Partito Democratico, non in quanto tale ma in quanto bandiera dell’immobilismo. Fossimo stati in una fase economica positiva, questo non sarebbe successo. Ma con la crisi serviva una scossa e il segnale è arrivato, nella logica disfattista del “tanto peggio, tanto meglio”. Hanno scelto il partito più anarchico possibile ritenendolo comunque vicino alle proprie corde, visto che M5S si porta dietro anche certe tematiche verdi e alcune un tempo appannaggio della sinistra. Penso però che i livornesi potrebbero anche voler tornare all’ovile, vista l’inconsistenza e l’impreparazione politica del M5S, sia a livello locale che nazionale, e a un certo grado di fascismo strisciante, forse inconsapevole, che erompe sempre di più negli atteggiamenti e nelle idee dei vertici di quel Movimento.

Questo vale per il partito, mentre di Nogarin in persona non so niente, nemmeno il nome di battesimo. Ma quando in una città non riesci nemmeno a costruire un ponticello pedonale di appena due metri in Venezia, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di Livorno, cosa vuoi sperare?

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