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Le Province in salsa Del Rio. Una riforma che viene da lontano ma che pare guardare al passato

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Tutto ebbe inizio nel lontano 1859: “Da qualunque luogo del territorio fosse possibile arrivare al centro dell’amministrazione in una giornata di viaggio”. A cavallo, visti i tempi. Questa era la dimensione ottimale individuata nella legge n.3702 del 23 ottobre 1859, cosiddetta Legge Rattazzi, dal nome dell’allora Ministro dell’Interno. Ma non si pensi che le dimensioni ottimali dell’epoca, visti i mezzi di trasporto, fossero inferiori alle nostre: in Sardegna, ad esempio, si contavano solo due province, Cagliari e Sassari. In Liguria, altrettante. In Piemonte quattro. Le suddivisioni amministrative previste dall’ordinamento del Regno di Savoia assomigliavano difatti ai dipartimenti francesi, dai quali traevano spunto. Le ragioni che portarono a tale individuazione, oltre della distanza dal centro, erano di tipo storico-geografico, di assetto urbanistico-demomografico e di razionalità amministrativa.
Poco più di cento anni dopo, negli anni ’70, con l’istituzione delle Regioni Ordinarie si riaprì la discussione circa l’opportunità delle Province e si iniziò a parlare della loro abolizione (ad esser precisi, già in Assemblea Costituente qualcuno aveva messo in dubbio la loro utilità). La discussione, però, evidentemente non portò alcun risultato, dato che tra gli anni ’90 e i primi 2000, con la partecipazione al Governo della Lega Nord e la riscoperta del Federalismo fiscale e della “Devolution”, le Province acquisiro sempre più importanza, diventando il livello territoriale più importante, dopo quello delle Regioni. Tra il 1990 e il 2008 le Province crebbero da 92 a 110, il meccanismo di elezione del Presidente divenne diretto – favorendo così una legittimazione politica e democratica dell’Ente – e aumentarono le funzioni, sia per via statale, sia perché furono le stesse Regioni a subdelegare sempre più competenze. Altro che abolizione.

Dalla XVI legislatura – e soprattutto con l’avvento del Governo guidato dal sen. Mario Monti – è iniziato un deciso dietrofront: esigenze di risparmio e di spending review impongono una rivisitazione dell’ente. Sull’idea della loro abolizione, certo mai sopita, soffia anche il vento dei media che – forse “imboccati” dalla politica – inquadrano nelle Province il buco nero della spesa pubblica. Il loro ruolo di valorizzazione della partecipazione democratica viene meno: si preferisce privilegiare l’abbattimento dei costi.

Il primo provvedimento è il d.l 201/2011, cosiddetto “Salva Italia”, che prevede: cancellazione dell’elezione diretta degli organi provinciali; drastica riduzione del numero dei consiglieri; soppressione delle giunte; svuotamento delle funzioni attribuite loro attribuite. Le Regioni protestano a gran voce, alcune di esse fanno ricorso alla Corte Costituzionale. Il Governo ci ripensa e con il d.l. 95/2012 ritorna sui suoi passi, prevedendo il loro mantenimento come organo di governo di “area vasta” e, al contempo, con un procedimento di razionalizzazione territoriale ispirata a criteri di ottimalità dimensionale e demografica. Si conservano le Province, ma se ne riduce il numero. I criteri sono fissati da un altro decreto legge, il n.188 del 5 novembre 2012, che non sarà più convertito in legge a causa delle elezioni imminenti e della discesa nell’arena elettorale di Mario Monti. Nel frattempo, interviene la Corte Costituzionale (sent. 220/2013) che dichiara l’incostituzionalità degli articoli dei due decreti legge che vertono sulle Province, in quanto non è prevista la trasformazione di un intero istituto tramite la decretazione d’urgenza (le Province, vista anche la discussione trentennale, non possono rappresentare per la Corte un caso straordinario di necessità e di urgenza).

Con il Governo Letta – e la riforma del Rio, appunto – si torna ai principi del “Salva Italia”: le Province saranno enti di secondo livello con organi eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali, avranno poche competenze gestionali dirette e svolgeranno funzioni di coordinamento, supporto e pianificazione delle funzioni comunali. L'”area vasta” diventa una ripartizione funzionale e un tavolo tecnico dei comuni interessati, non più un’entità autonoma capace di esprimere un proprio indirizzo politico. La Repubblica che conosciamo si trasforma in una Repubblica delle Autonomie, con 2 soli livelli di Governo: le Regioni e i Comuni. L’unica eccezione è quella delle Città Metropolitane, l’equivalente delle Province per alcune città capoluogo di Regione. Questi nuovi enti hanno molta più autonomia (anche impositiva) rispetto alle aree vaste e compiti più pesanti: oltre a quelli rimasti alle Province, si occuperanno di pianificazione territoriale generale (comprese le reti di servizi e le infrastrutture), servizi pubblici di interesse generale, viabilità e mobilità dello sviluppo economico.

A questo punto, si aprono alcune questioni sulle quali sarebbe opportuno interrogarsi:

se è vero che la Riforma è a metà (e questo lo prevede la l.56/2014) in quanto si attende a gloria un’abolizione delle Province, qualora la riforma costituzionale non veda un traguardo certo, che ne sarà di questi enti ibridi e soprattutto delle funzioni a loro attribuite per i prossimi anni? Non era più opportuno attendere la riforma suddetta (quella che prevede anche il superamento del bicameralismo perfetto e la nuova legge elettorale)?

Il risparmio quantificato nell’abolizione delle cariche elettive dirette (il nuovo consiglio provinciale non prevede indennità per i consiglieri comunali e per i sindaci che ne faranno parte) è stimato dal Sole24Ore in 150 milioni di euro all’anno. Siamo sicuri che i benefici economici dell’abolizione di un ente di governo intermedio siano maggiori dell’opportunità di mantenere una guida per un territorio?

Che ne è stato della razionalizzazione delle Province prevista nel d.l. 95/2012, che prevedeva, ad esempio, la riorganizzazione in Toscana di sole 3 aree vaste (Centro, Sud, Costa) magari più funzionali alla programmazione dei servizi di interesse pubblico?

Infine, il ruolo delle Città Metropolitane è di gran lunga più” protagonista” rispetto a quello delle aree vaste che fanno parte della medesima regione. Non vi è il rischio di uno schiacciamento delle esigenze della Regione a quella della Città Metropolitana? Nello specifico, non è che noi livornesi – e più in generale tutti gli abitanti della Costa e delle altre province quali Siena, Grosseto e Arezzo – diventeremo sempre più periferia di Firenze?

A queste domande la Riforma del Rio risposte certe non ne da. Pare voler ottenere solo un risparmio economico immediato. E, se permettete, io qualche dubbio sulla bontà federalista della Riforma ce l’ho. Non vorrei che da voler attuare il Federalismo del Titolo V, ci svegliassimo domani con uno Stato sempre più centralizzato, dove le periferie contino sempre meno. Ohibò.

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