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Occupy Central: quale futuro

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A Hong Kong da giorni migliaia di studenti, e non solo, guidati dal movimento Occupy Central, protestano in tutta la città. I loro desideri di democrazia sono stati disattesi dal governo di Pechino, che ha deciso che questi potranno eleggere il capo del governo locale scegliendo da una lista di candidati di fatto fedeli alla leadership mandarina (come ha ricordato anche Davide Passetti in un articolo di questo blog). Nei giorni scorsi si sono verificati alcuni momenti di tensione e la polizia, impegnata nel disperdere i manifestanti, avrebbe utilizzato anche gas lacrimogeni e spray al peperoncino. Il primo ottobre, ad Hong Kong i festeggiamenti per la festa nazionale della Repubblica Popolare Cinese sono stati cancellati e le proteste continuano, per ora, pacificamente. C’è chi parla di una nuova Tienanmen, e gli occidentali guardano con gran fiducia e ammirazione a questi ragazzi che hanno deciso di affrontare il repressivo sistema cinese.

Ma quali sono le reali prospettive e le effettive speranze di democratizzazione?

È necessario prima fare un breve riepilogo di ciò che ha portato ha questa situazione. Hong Kong è stata formalmente una colonia britannica fino al 1997, anno in cui è passata sotto l’amministrazione del governo cinese come regione amministrativa speciale. Fino a quel momento, nonostante la colonia di Hong Kong poté godere della “rule of law” e del diritto di protesta, in realtà non ottenne mai neppure una sembianza di democrazia, essendo governata a 6.000 km di distanza dal governo di Londra. L’idea di democrazia fu invece introdotta dal governo cinese, il quale nel 1990 adottò la Basic Law, che includeva l’impegno di concedere il suffragio universale nel 2017, per l’elezione dei propri amministratori, ed il principio di “one country, two system”, che permise a HK di mantenere il suo distintivo sistema politico legale ed economico.

Nonostante questo, le relazioni tra Cina e Hong Kong dopo il 1997 cambiarono molto rapidamente, e questo rappresenta anche una motivazione fondamentale dell’attuale agitazione.  Durante i 20 anni precedenti alla consegna di HK alla Cina, l’isola conobbe la sua golden era: nel 1978 il presidente Deng Xiaoping promosse una serie di riforme che portarono alla rapida crescita della Cina, di cui HK divenne il punto di entrata per tutte le compagnie multinazionali e banche che volevano avere accesso nel mercato cinese, e il “Porto profumato” era il più ricco e trafficato del Paese. Quindi HK divenne ricca grazie alla Cina, ma fu in particolare l’isola ad arricchirsi, a godere dei benefici, e dei più alti standard di vita rispetto ai mainlanders, invece considerati ignoranti, inferiori e contadini. Gli hongkonghesi preferivano identificarsi con gli occidentali piuttosto che con i cinesi, ma non per la democrazia, quanto piuttosto per i soldi e lo status che essi offrivano.

Molto cambiò però nel 1997, quando l’economia cinese continuava a crescere, così come gli standard di vita di tutta la popolazione, e gli snodi principali del commercio dell’economia e della finanza si spostarono da HK alla mainland, soprattutto Shanghai, Pechino, Guangzhou, Chengdu e altre città maggiori. Parte dell’attenzione mediatica ricevuta dalle richieste democratiche di Hong Kong, infatti, deriva dal suo ruolo d’importante hub finanziario e di porta d’accesso privilegiata al mercato cinese. Tuttavia, la competitività del “Porto profumato” sta lentamente diminuendo, in gran parte a causa dell’ascesa di Shenzhen, Guangzhou e, soprattutto, Shanghai. Il governo cinese vuole fare di quest’ultima – dove è stata avviata la creazione di una nuova Free trade zone – la punta di diamante dell’economia dell’Impero di Mezzo.

Detto questo, uno dei principali motivi dell’agitazione odierna è da riscontrarsi in questi fattori, dal fatto che i manifestanti sono arrivati allo scontro con questa nuova realtà, e stanno sperimentando una crisi di identità e senso di dislocamento. Sanno che il loro futuro è inestricabilmente legato alla Cina, anche se risulta difficile da accettare. Non c’è alternativa, Pechino è il futuro, non il nemico.

Le poche speranze di democratizzazione vanno anche ricercate nel fatto che c’è un forte legame tra l’élite economica locale e il governo di Pechino e il ruolo del comitato permanente del Congresso Nazionale del Partito come unico interprete della Basic Law; in più, la radicata presenza del Partito comunista cinese nella regione che opera segretamente attraverso il dipartimento Propaganda, il quale impartisce le linee guida sull’immagine del Pcc e stabilisce rapporti personali con intellettuali, manager, amministratori, tecnici e artisti non legati al Partito, e li persuade affinché ne appoggino le politiche. Grazie a questa struttura a due livelli (ufficiale e ufficioso), Pechino ha sviluppato nell’ex colonia britannica un articolato sistema di controllo e persuasione che coinvolge cultura, media, editoria, istruzione eccetera.

Inoltre, c’è da tenere presente che Pechino non è in condizione di cambiare idea, perché si deve preoccupare di un altro 1,4 miliardi di cinesi che non hanno nessuna simpatia per quelli di Hong Kong: questa è la principale preoccupazione di Pechino. Non può lasciare una piccola città alla periferia che si auto-gestisce: non ha alcun senso. Pechino deve guardare all’equilibrio generale della situazione. La protesta potrebbe continuare, ma è una cosa di basso livello. Tian’anmen è stata una sfida centrale al regime. Qui, in realtà le cose sono ben diverse. I vecchi sicuramente non sostengono il movimento, anche se permane un senso di profonda antipatia per i fratelli della mainland: tutti sanno che il loro benessere dipende da loro. Hong Kong, senza l’apporto della Cina, spirerebbe in un secondo. Il pragmatismo, in un mondo confuciano, prevale sull’idealismo.

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