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Dieci libri per apparire sapienti di politica. Puntata 9: Cinque anni di solitudine

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Come si fa a parlare di questo? Mi chiedevo mentre mi scorrevano sotto gli occhi le 124 pagine di uno dei libri di politica più strambi che secondo me possano capitare fra le mani oggi. Si fa che mi serve proprio perché è così strano, ho deciso alla fine. Così eccoci. Il libro è edito da Il Mulino, anno di pubblicazione 2012, e si chiama “Cinque anni di solitudine”.

Avevo frugato un po’, in molte direzioni, perché stavo cercando un saggio di filosofia dell’amministrazione comunale. Cioè, come recitava la promessa per la penultima puntata di questo decalogo a tema, volevo sapere se c’era qualcuno che avesse scritto un libro sulla ‘difficoltà’ di fare scelte nell’amministrare una comunità che non fosse né un villaggio né una capitale italiana.

Cercando e cercando per esempio mi ero imbattuta in un bel libretto sui comuni virtuosi italiani, che era davvero incoraggiante, ma che purtroppo soffriva di un allure grillina un po’ da vertigini, per la sottoscritta, una cosa fatta tipo di dodici capitoli dove in ognuno si raccontava come nel virtuoso comune di x di 2000 abitanti, uno di questi pregevoli cittadini avesse deciso di far dipingere i cassonetti di un colore diverso per ogni quartiere e di farne decorare alcuni da dei giovani artisti.

Ho paura che questa non fosse proprio la mia idea di virtù amministrative, insomma. Allora, alla fine, sono finita su questo libro così strano, scritto da un sindaco del Pd che ha governato un comune di 119.000 abitanti. Lui si chiamava Roberto Balzani e non era un politico di professione quando si è lasciato ‘candidare’ alle primarie come sindaco di Forlì, nel 2009. Le ha vinte. E ha vinto anche le elezioni. Non me ne abbia, se quest’autore dovesse mai leggere questa recensione, ma il libro che Balzani ha scritto per dare un senso alla sua esperienza di ‘sindaco per caso’, pur avendo messo impegno e serietà in questo incarico, mi ricorda tanto Fantozzi. Il caro, amatissimo e sfigatissimo ragioniere nazionale che subiva il mondo e in qualche modo lo leggeva in termini filosofici, con tutta la rabbia spesso di non saperlo (e qualche volta di non volerlo) cambiare. Provo a essere ancora più diretta: vi consiglio di leggere Balzani e le sue idee su cosa non andava a Forlì nel 2009, e su cosa andrebbe cambiato nel modo di amministrare un comune italiano in questi anni così difficili per l’Italia, perché si possa pensare di prendere Filippo Nogarin, Marco Ruggeri, Alessandro Cosimi, Gianfranco Lamberti, e farne una zattera di amministratori eletti o non eletti, bravi o pessimi, di cui essere noi, per primi, i responsabili. Si. Si si, provate a continuare a leggere. Forlì non era un posto in difficoltà come Livorno, almeno questo mi sembra che dica Balzani, però era un comune ‘rossastro’ (rosso-bianco, alla maniera emiliana), in cui il clientelismo che il ‘sindaco per caso’ si è trovato davanti era niente meno che rampante. E poi era un comune ‘dimenticato’, in questo molto simile a Livorno, in una regione in cui – confessa ancora Balzani – “la regione non ha molto piacere a veder emergere nuclei di elevata capacità e articolazione gestionale al di fuori del capoluogo (p.53)”. Con ancora più cattiveria ecco cinque cose che Balzani dice di Forlì e che forse riguardano molto, ma molto da vicino anche Livorno:

– I piani comunali frammentati non servono a niente. Nessuno di noi si mette davvero a riflettere, pezzo per pezzo, sul senso di queste scelte. Ne viene fuori che tutti ci sembrano dei vigliacchi, o dei piccoli approfittatori e che noi per primi approfittiamo di queste ‘segmentazioni’ politico-economico-progettuali (p. 34). Bisogna che qualcuno abbia la testa per pensare un progetto di sviluppo complessivo, E A LUNGO TERMINE e ci costringa a farne parte.

– In giunta i momenti cruciali sono quando si decide, non più quando si fa. Ne deriva che si decide e poi non si fa (p.27).

– Gli amministratori vedono meno chiaro dei cittadini, perché al contrario di un tempo, non si sceglie più per amministrare chi è stato più fuori, ma chi è stato più dentro al tessuto e alle abitudini e alle istituzioni della città (p. 30). Quindi spesso i cittadini trovano penosi gli amministratori e spesso gli amministratori amministrano ignari.

– Nessuno nei comuni fa da vero ‘informatore’ delle situazioni reali della città: ci sarebbero gli insegnanti, ma non li usiamo come consulenti amministrativi e politici (salvo eccezioni ad personam, ma grazie al secchio) e ci sono le associazioni, ma la maggior parte di queste ci vede male come gli amministratori e se per esempio le associazioni di quartiere sono bravissime a combattere per quello che non va – beh – si può dire che lavorino per l’aggregazione sociale? (p.33).

– il dramma è anche la forbice fra amministratori che sono politici di professione, che non fanno gesti radicali per non rovinarsi una carriera verso il Parlamento, e amministratori dilettanti, che non sanno COSA SIA un vizio di legittimità in una procedura di gara e come gestirla (p. 81).

Vorrei dire molte altre cose di questo libro tanto strambo e che vi consiglio di leggere ma preferisco concludere con una lezione che Balzani mi dà ma che mi volevo dare da sola da un pezzo: se non rientriamo tutti in politica niente di questo potrà cambiare. E questo, questo solamente, secondo me, oggi è il gesto di sacrificio e di responsabilità che si deve prendere in carico chi ha meno di quarant’anni ed è di sinistra. La questione più hard di amministrazione di un comune di media dimensione è che se ne occupino per primi i suoi cittadini. Di pensarlo, di salvaguardarlo, di sacrificarsi, anche, un po’ per il bene del loro vicino. Per un punto più preciso su quello che io penso veramente sia ‘la sinistra’ oggi, come cittadini di un comune di 160.000 abitanti, premetto che la prossima volta parleremo di emergenza abitativa. Cioè di una cosa che io credo sia veramente capace di delineare la differenza fra un’amministrazione come dovrebbe essere e come ‘la pensa il nemico’ (come promesso per l’ultima puntata del decalogo). La prossima volta parleremo di quella che non si può dire meno trucemente che come la scelta di destra di scatenare una guerra fra poveri.

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