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Don Peppe Diana e Ilaria Alpi. La vita per la legalità

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Esattamente venti anni fa, nel 1994, nell’arco di poco più di 24 ore, due ragazzi italiani trentenni perdono la vita in brutali agguati. Giuseppe, Peppe per gli amici, è campano e indossa la tonaca. Ilaria, invece, è romana di nascita e fa la giornalista. Vite diverse e morti lontane a migliaia di chilometri di distanza l’una dall’altra. Non si conoscono, eppure c’è qualcosa che li lega. Quel qualcosa è la molla che li fa alzare dal letto la mattina, che fa compiere loro una scelta anziché un’altra: l’affermazione della legalità.

Don Peppe Diana nasce a Casal di Principe nel 1958 e lì, 36 anni dopo, muore sparato con cinque colpi di pistola nella sacrestia della sua chiesa, alle 7 di mattina del 19 marzo, il giorno di San Giuseppe. Il paese, all’epoca, era sconosciuto ai più, ma non ai camorristi che passavano in macchina per le strade sparando colpi di mitra. Così, solo per ribadire che lì comandavano loro. Peppe è un ragazzo cresciuto in una famiglia umile, scout appassionato di filosofia. Un prete di periferia. Di lui, ci rimane un manifesto che aveva fatto affiggere tre anni prima nelle chiese della zona: “Per amor del mio popolo non tacerò”. Manifesto nel quale si chiedeva ai parroci – e alla Chiesa – di picchiare duro sulla Camorra nelle loro omelie, di denunciarne le prepotenze, di svolgere il ruolo di profeti che la Chiesa assegnava loro e di essere, soprattutto, esempi di vita per i cittadini oppressi dalla malavita. Manifesto nel quale si definiva la Camorra per quello che è: “una forma di terrorismo”. Quel manifesto diventerà anche il suo testamento.

Ilaria Alpi, il giorno seguente all’uccisione di Don Peppe, si trova molto più a sud, a Mogadiscio, in Somalia. É insieme all’amico operatore Miran Hrovatin, quando la loro jeep viene assaltata da alcuni somali e i loro corpi crivellati a colpi di kalashnikov. Ufficialmente, è inviata del Tg3 per seguire la guerra civile scoppiata tre anni prima e che si protrarrà per i vent’anni successivi. La Somalia è, già allora come del resto oggi, uno dei paesi più poveri al mondo, dove la corruzione e la violenza la fanno da padrone. In quegli anni di guerra civile tutto è permesso, a patto di saper toccare i giusti tasti. E gli italiani hanno molti interessi in quelle zone. Costruiscono strade, ponti, garantiscono (insieme all’ONU) la sicurezza. Ma non ci riusciranno, tant’è che l’anno successivo il corpo militare sarà costretto al ritiro, lasciando il paese in balia di scontri tra gruppi armati. E mentre è lì, Ilaria, inizia a percepire che non tutti gli affari sono leciti. Fa domande, indaga. Fa luce su una terribile, qualora dimostrata, verità: alcuni italiani, con il beneplacito di rappresentanze diplomatiche e forze di sicurezza italiane ed europee, nonché dei servizi segreti, smaltiscono in Somalia – e in tutto il Corno d’Africa – rifiuti tossici internazionali in cambio di armi per i guerriglieri locali. Proprio chi avrebbe dovuto garantire la sicurezza, distribuiva invece armi per la guerra civile. Tutto ciò, in cambio dello smaltimento di rifiuti. Ma la commissione parlamentare d’inchiesta, ad oggi e dopo la terza relazione, non ha ancora stabilito quale sia la verità. Nel frattempo, sulla vicenda cala la nebbia: sul corpo di Ilaria Alpi non viene fatta l’autopsia (ritenuta non necessaria) e si inizia a parlare di tentativo fallito di rapimento e non di esecuzione, come, invece, suggerirebbe la dinamica dell’incidente. Così, a distanza di vent’anni, i familiari cercano ancora la verità.

Il caso vuole, quindi, che ci sia un secondo elemento di contatto tra i due casi: sia Peppe che Ilaria, si trovano e “combattono”, nei mesi antecedenti alla loro morte, in territori considerati pattumiere, discariche dove smaltire, in tutta tranquillità, rifiuti tossici. Posti dove gli imprenditori, che vogliono liberarsi di “merci” scomode, si accordano con chi gestisce il territorio – in Campania la Camorra, in Africa i guerriglieri e i governi locali – per fare quello che non avrebbero potuto fare nelle loro zone d’origine. Anche se, nella Terra dei fuochi, come ho già scritto qualche mese fa, certe cose si sapranno solo svariati anni dopo. Inoltre, tutti e due – come altri, del resto, persino Falcone e Borsellino – una volta morti, subiscono l’onta della diffamazione: qualcuno, il boss Nunzio De Falco, dirà che Peppe Diana era un camorrista. Ammazzato perchè custodiva l’arsenale dei Casalesi. Qualcun’altro, Carlo Taormina, presidente della commissione d’inchiesta, sosterrà che la giornalista “era in vacanza”.

Ma torniamo al primo elemento: la legalità. Non sta a me trovare la morale nelle loro storie. Tante se ne sentono in questi giorni, di morali e di sermoni. Anche superflui, diciamolo. Ammesso che esista, poi, una morale. Perché il costo che hanno pagato è altissimo, il più alto che si possa pagare. Ma entrambi, con il loro esempio, ci ricordano che il primo passo per l’affermazione della legalità è la ricerca della verità. E le scelte che compiamo quotidianamente, dal decidere se denunciare un reato al quale assistiamo fino anche all’acquisto di un qualsiasi bene di consumo, il più effimero, dovrebbero seguire dei principi. E, tra questi principi, vi è quello di capire cosa c’è dietro ogni processo, il chiedersi come e perché. Qual è, insomma, la verità. E, soprattutto, una volta scoperta e capita la verità, avere coraggio e non voltarsi dall’altra parte.

“Non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte, di denunciare”.

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