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Dieci libri per apparire sapienti di politica. Puntata 6: Berlinguer e la fine del comunismo

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Bene. Dicevamo un mesetto fa di questo partito che si sciolse nel 1991. Il Partito comunista Italiano.

Per apparire sapienti su cos’è successo alla sinistra dopo quel famoso comunismo io metto in tavola un libro di sei anni fa, scritto da uno storico romano, Silvio Pons.

Prendo in mano questo libro, Berlinguer e la fine del comunismo, (Einaudi) con la consapevolezza di un fatto disarmante: quando si è sciolto il PCI io avevo sei anni. Peggio – ne avevo solo quattro quando è caduto il muro di Berlino. Per molti di voi probabilmente è diverso, perchè magari siete nati anni dopo ed eravate all’asilo non mentre si liquefaceva il progetto comunista ma mentre si consolidava quello di Forza Italia.

C’è una differenza, mi sa, importante, fra la storia politica che abbiamo vissuto con coscienza più o meno adulta, quella che non abbiamo vissuto perchè non c’eravamo, e quella che abbiamo attraversato ma senza saperlo, perchè eravamo bambini. Delle tre, il terzo tipo di storia forse è quello a cui è più difficile dare un senso. Ne segue che questo per la sottoscritta è il libro più scomodo da raccontare dei dieci di cui parliamo.

Per fortuna, per quanto scomodo, si possono dire molte cose buone su com’è scritto. Il tutto comincia con una lunga introduzione, che serve a Pons a spiegare perchè abbia pensato un libro diviso in tre grandi capitoli, dove l’impresa è ricostruire il senso delle politiche internazionali del Partito Comunista Italiano dal 1968 all’84. Politiche internazionali. Internazionale: questa parola coglie qualcosa da cui a mio avviso non si può prescindere. Ma ci arrivo un po’ per volta. Prima i pregi di Pons. Il libro infatti ci dà l’idea di una serie di cose che messe in fila, nell’arco dei decenni dal Sessanta all’Ottantaquattro, hanno reso profondamente diversi e poi ‘incompatibili’ i partiti comunisti di tutto il mondo, provocando la fine della maggior parte di queste esperienze politiche. L’URSS ha vissuto una prosperità e una crisi del tutto sui generis, essendo costituita da un territorio sterminato dove una vera e propria galassia di realtà geografiche, politiche e culturali erano sottoposte all’accentramento ferreo di Mosca. Qui la situazione esemplare di una rottura dell’equilibrio è la vicenda cecoslovacca del 1968, con la quale Stalin mostrò a tutti che c’era poco da ridere e che l’idea di evolvere il suo modello di Partito Comunista (quello che il segretario del partito cecoslovacco, Dubček, aveva provato a fare), si rivolveva a carri armati (p. 6 e 7). Problemi diversi ma derivati da una situazione geoculturale simile, li aveva Tito in Jugoslavia, dove la diversità etnica fu prestissimo all’origine di un autentico macello – si veda la figura del signor Franjo Tuđman e la questione croata-serba del 1971 (p. 56). Poi abbiamo, dall’altra parte, i due Paesi dove formalmente il comunismo è ancora vivo, la Repubbllica di Cuba e la Repubblica popolare cinese (con il Vietnam, la Corea del Nord e il Laos). La prima ha sofferto una posizione fisica un tantino difficile – costituendo il ‘nemico sovietico in casa’ del più potente avversario politico del comunismo globale, gli Stati Uniti. Situazione aggravata, dal 1961, dal fatto di essere completamente isolati per punizione e dover dipendere in tutto e per tutto dalle provvigioni di Mosca, che però non è stata proprio un genitore coscienziosissimo, quando nel 1962 è andata a collocare su suolo cubano qualche tonnellata di missili in una logica di perfetto celodurismo planetario. Cosa pensassero i presidenti americani Kennedy, Kissinger e Carter del nostro PCI lo potete leggere in una profonda e dettagliata riflessione, da pagina 91 a pagina 119. La Cina, altro potentissimo mostro sacro della realizzazione del comunismo nel mondo, ha avuto una storia legata alle sue relazioni in Asia e negli anni Sessanta ha vissuto un conflitto aperto con le politiche sovietiche, con tanto di antagonismi e dichiarazioni di infamia reciproche, ma anche di ricongiungimenti nel sostenere per esempio un genocidio – quello cambogiano di Pol Pot (p. 147). A questi scenari (che immagino dovrebbero avervi già molto confuso), vanno aggiunte tutte le situazioni dei Paesi in cui un Partito comunista esiste o è esistito senza ottenere un potere di governo stabile, ma come forza imprescindibile di vicende cruciali degli ultimi quarant’anni. Considerando solo l’Europa, bisogna pensare cioè a che cosa sono significate almeno: le battaglie del KKE in Grecia, quelle del PCP portoghese, la normalizzazione di Kadar in Ungheria ( p. 234) , e infine – eccoci – la connessione fra Carrillo in Spagna, Marchais in Francia e Berlinguer in Italia.

Siamo alla questione nodale, per la quale l’ho tirata tanto lunga fin qui. Non si può spiegare perchè il comunismo è finito, senza considerare tutta questa serie di composizioni, fratture, accordi, aggiustamenti di visioni. In queste visioni, il nostro terzultimo segretario di Partito, Enrico Berlinguer, si è battuto per oltre dodici anni. L’idea di Pons, e anche la mia, è che il valore di quello che ha fatto ci fa vedere insieme cosa non si poteva fare. Berlinguer cioè si è giostrato fra rapporti cinesi, rapporti russi, rapporti sovietici, rapporti balcanici e rapporti nazionali, sostenendo un paradosso assai lungimirante, che era questo: “noi, che siamo il Partito Comunista più grande dell’Europa occidentale (ma avete visto quanti ce n’erano) vogliamo fare la rivoluzione, ma siamo disposti a parlare con chi ce lo vuole impedire”. Intendo dire, ancora oltre, in soldoni, che secondo me oggi bisogna riguardare a quello sforzo internazionale, mangiandoci le mani per aver abbandonato l’idea. Infatti, quello che manca, a tutti noi, a qualsiasi forma di sinistra che non considera più la rivoluzione come il proprio obiettivo, è UN obiettivo comune. Ci manca la visione globale, la rivoluzione proletaria che per ottant’anni circa ha tenuto insieme diversi milioni di persone sparse sul pianeta in un progetto comune, che poi si è rivelato non poter essere comune.

Ora però, lanciando una provocazione, non potrebbe essere che le crisi ci sono strutturalmente? Che quello che è successo ai resti del PCI dopo che si è sciolto nel 1991 era prevedibile e non c’è nessuna catastrofe irrecuperabile? Rispondo solo ora, con un’altra provocazione, a quello che era il titolo di questa recensione: cos’è accaduto alla sinistra dopo la fine del comunismo? E’ successo che siamo impazziti, ma cinque anni dopo siamo entrati nell’euro. Lascio l’ironia a chi voglia di cancellare il ma e sostituire un ‘e’, ma non è così che la vedo io. Io penso non che abbiamo messo una moneta al posto di un ideale rivoluzionario, ma che con quella moneta abbiamo qualcosa per pensare a un Partito politico con un ideale, una democrazia europea. Anche se avrei preferito di gran lunga nascere in un’epoca in cui la rivoluzione era il fondo del senso della lotta politica, sono nata mentre il partito comunista italiano smetteva di lavorarci. Quindi un sospiro amaro e riparto dalla storia della ‘visione internazionale’ che la nostra miglior politica dei tempi che furono aveva. Nei giorni in cui fra Sel e Pd non si capisce cosa succederà e che il maggioritario promette di riportare a una forma necessariamente larga le visioni della politica nazionale, potete usare Pons per costruire un’opinione su quello che volete.

 

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