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Un saluto al 2013 in ricordo del 500esimo anniversario dalla pubblicazione de “Il Principe”

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Un grazie a Giulia Natale che ci ha inviato questo articolo. E noi lo pubblichiamo.

Un saluto al 2013 in ricordo del 500esimo anniversario dalla pubblicazione de “Il Principe”. Un libro che ha segnato il pensiero politico mondiale

di Giulia Natale

Ho deciso di presentarvi un breve scritto su Il Principe di Machiavelli come omaggio al quasi trascorso 2013. Per augurare a tutti un felice nuovo anno ho pensato potesse essere cosa gradita ricordare, invece, l’appena trascorso come il 500esimo anniversario dalla stesura di uno dei trattati cardine di dottrina politica il quale, nonostante la sua veneranda età, non manca di stupirci per la sua evidente giovinezza.

Nella seconda metà del 1513 Niccolò Machiavelli scrisse un libretto, da lui stesso definito “un opuscolo”, che sarà nel tempo destinato ad avere una risonanza mondiale nel pensiero politico data la sua straordinaria attualità: Il Principe (titolo originale, in lingua latina “De Principatibus”, letteralmente “Sui Principati”).

Molte le diverse interpretazioni che si sono succedute e su cui non mi dilungo.

Vi propongo una lettura personale, una veloce scorsa dei passi principali, cosicché possiate incuriosirvi e, perché no, leggerlo.

Il capitolo XXVI, l’ultimo, intitolato “Esortazione a liberare la Italia da’barbari” è da notare in quanto passo in cui si percepisce il messaggio che Machiavelli vuol trasmettere con la sua opera, in cui questo si manifesta come il pensatore che ha a cuore i destini dell’Italia, la sua uscita dal predominio degli Stati stranieri, francese e spagnolo oltre che dalla sovranità dello Stato della Chiesa. Machiavelli ha ben chiara la situazione italiana, conseguentemente si chiede se i tempi “siano maturi per dare il benvenuto ad un unico grande Principe che faccia onore e bene all’Italia” e non può che essere affermativa. Non solo, sottolinea che “i tempi non sono mai stati così buoni per un Principe nuovo” ed era “necessario che l’Italia si riducesse allo stato pietoso in cui versa per conoscere la virtù di un grande spirito italiano”. Individua i Medici, come famiglia favorita al Governo di un’Italia unita. In realtà a questo non darei molto credito, sarei piuttosto propensa a leggerla come una captatio benevolentia per non dire una ruffianeria, rivolta ai Medici per riottenere l’incarico di Segretario della Repubblica.

Il capitolo si chiude con l’augurio che si avverino finalmente quei versi del Petrarca nella sua canzone “Italia mia” la cui lettura consiglio vivamente.

Passiamo, a ritroso, al capitolo VII “De’ principati nuovi che s’acquistano colle armi e fortune altrui”. Nel capitolo in questione si spiega come i Principi che acquistano il potere di Stati con la sorte, difficilmente riescono a mantenerlo perché si basano sulla volontà e sulla sorte di chi ha concesso loro questo privilegio. Non “sanno né possono mantenersi in quello Stato”. Non “sanno” perché essendo sempre vissuti alle spalle di altri, a meno che non siano uomini di virtù straordinarie, non sono capaci per natura a comandare. Non “possono” perché non hanno le forze che possono esser loro fedeli.

A questo punto entra in campo la figura, che si rivelerà centrale, di Cesare Borgia “detto dal volgo il Valentino”.

Nonostante inizialmente Machiavelli lo prenda come emblema di Principe che ha conquistato lo Stato con la fortuna (era figlio dell’allora papa Alessandro VII), la sua capacità di creare le fondamenta, “con gran virtù farli dopo”, suscita grande stima e positiva valutazione nell’autore, il quale, testimone diretto delle azioni di questo, ne resterà estremamente colpito. Ripercorre, con enfasi, la storia dei progressi egemonici del Valentino che conquistò la Romagna. Una volta conquistata la Romagna, “la governò con braccio forte per tenerla legata a sé”. Non riuscì, però, ad acquistarsi tanta forza da resistere all’impeto futuro quindi, accerchiato da potenti eserciti che non riuscì a contrastare, andò in rovina.

Secondo l’opinione dell’autore non c’è esempio migliore per chi voglia assicurarsi uno Stato nuovo che seguire le azioni del Valentino. L’unico errore che l’autore gli riconosce fu l’elezione a Papa di Giulio II il quale fu frutto di un compromesso con i cardinali piuttosto che una sua scelta.

“Chi crede che nuovi benefici facciano dimenticare le offese ricevute, sbaglia”.

Nonostante tutto Cesare Borgia rimase per il Machiavelli l’esempio da seguire.

Dal VII passiamo al XV, al XVII e al XVIII centri nevralgici dell’intera struttura “caratteriale” del Principe machiavellico: il XV “Di quelle cose per le quali li uomini specialmente i principi sono laudati o vituperati.”

“E’ necessario al Principe sia essere buono che non buono, a seconda delle situazioni”. L’Autore sostiene che gli uomini e i Principi, ogni volta che ricoprono un incarico importante, “sono notati e etichettati con termini che li indicano con biasimo o con lode: liberale o misero, donatore o rapace, crudele o pietoso, fedifrago o fedele, effeminato o pusillanime, feroce o animoso, umano o superbo, lascivo o casto, leale o sleale, duro o facile, grave o leggero, religioso o ateo, ecc”. Machiavelli sa che tutti pensano che sarebbe una cosa buonissima che un Principe riuscisse ad annoverare in sé tutte le buone qualità sopradette; ma, “essendo umani e non potendole avere tutte, è necessario che sia tanto prudente, e se è possibile, liberarsi della forma del vizioso. Ma anche non si curi il Principe di essere passato per un vizioso senza i quali vizi perderebbe facilmente il suo Stato, perché può succedere che qualcuna che sembra una virtù può portare alla rovina, viceversa negandola porterà a mantenere lo Stato”.

XVII “Della crudelta’ e pieta’; e s’elli è meglio essere amato che temuto, o piuttosto temuto che amato”. Avendo come punto di riferimento il bene dello Stato Machiavelli scrive che sarebbe auspicabile, per un Principe, di essere amato e temuto ma, essendo difficile “accozzarli insieme” allora “è molto più sicuro essere temuto che amato”. Continua con un passo che evidenzia il giudizio estremamente negativo che Machiavelli dell’animo umano: “Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’pericoli, cupidi di guadagni; e mentre fai loro bene, sono tutti tua… ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano…..E gli uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare che uno che si facci temere”. E più avanti il consiglio di essere temuto e non odiato “astenendosi dalla roba d’altri perché gli uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio”.

Arriviamo al XVIII “In che modo e’ principi abbino a mantenere la fede (lealtà, fiducia)”, sicuramente uno dei più famosi, in cui si affermano i due modi di combattere: con la legge (modo proprio dell’uomo), o con la forza (modo proprio delle bestie). Assunto che il primo molte volte non basti, occorre ricorrere al secondo. Ad un Principe “è necessario sapere usare la bestia e l’uomo” e, dato che, il Principe deve saper usare bene anche la parte animale, deve prendere di questa le qualità della volpe e del leone, “perché il leone non si difende dai lacci e la volpe non si difende dai lupi”. Perciò un Principe savio non deve essere fedele se tale fedeltà non gli è di alcun giovamento, “se gli uomini non la porterebbero bene a lui, anche lui non la deve portare a loro”. Della natura di volpe è necessario “prendere il saper ingannare gli uomini”.

Grandiosa la conclusione: “ad un Principe non è necessario avere tutte le suddette qualità, ma sembrare di averle. Anzi, avendole tutte, gli sono dannose, ma parendo di averle, tornano invece utili. Se lo sei non ti puoi mutare col cambiamento della sorte, ma se lo fingi soltanto, puoi temporeggiare e destreggiarti. Un Principe deve dunque curarsi che non gli esca parola che non sia come deve sembrare che sia, tutto pietà, fede, integrità, umanità e religione. E in generale gli uomini giudicano più in apparenza che in sostanza perché ognuno sa vedere quello che sembri, ma pochi sentono quello che sei in realtà e quei pochi non osano dire il contrario, mettendosi contro la maggioranza”. Notevole l’attualità.

Il XXII non viene ritenuto importantissimo ma ritengo opportuno quantomeno accennare al suo contenuto. Machiavelli, nel sopracitato capitolo, propone una sorta di criterio indicativo di buon principe, a mio modesto giudizio, riassumibile col latino “similia similibus” ovvero che anche attraverso i collaboratori è possibile giudicare il valore di un Principe. “De secretari ch’è i principi hanno appresso a loro”, dalle sue scelte sui propri ministri si giudica il Principe. “La prima congettura che si fa di un Principe, è vedere gli uomini che ha d’intorno”.

Concludo con il XXV capitolo “Quanto possa la fortuna nelle cose umane e in che modo se li abbia a resistere” dove entra in campo il concetto di “Fortuna” a cui il Machiavelli attribuisce la metà delle cause delle umane vicende a cui contrappone il valore della “Virtù”. Famosa la metafora del fiume in piena che quando straripa crea danni agli uomini e agli edifici e l’uomo virtuoso che in tempi di quiete costruisce argini e ripari in modo che, crescendo, il fiume venga convogliato in canali senza procurare alcun danno. Il Principe virtuoso è colui contrasta e anticipa (quelli che oggi chiameremmo “i cigni neri”) “perché la Fortuna volge il suo impeto dove la virtù non è preposta a resisterle”, dove non vi è “ordinata virtù a resisterla”. Con tutta onestà la conclusione del capitolo mi perplime un po’.

Spero principalmente di avervi incuriositi, spero inoltre che abbiate modo di leggerlo, mi auguro che lo apprezziate e che ne traiate un qualsiasi genere di arricchimento.

Auguro a Il Principe un buon 500esimo anniversario e a tutti vuoi Buone Feste.

Consiglio, come regalo da mettere sotto l’albero, la lettera inviata dal Machiavelli all’amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513 che potete trovare nel saggio da poco uscito: Adriano Sofri “Machiavelli, Tupac e la Principessa” Ed. Sellerio.

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