Se ne leggono tante, mi permetto di dire che se ne leggono troppe. Nei miei anni di appassionata e convinta partecipazione dentro gli organismi del mio partito ho avuto molti importanti insegnamenti politici, che poi sono anche insegnamenti di vita. Vi dico uno di quelli che mi piace di più: “Chi tace, quando l’occasione richiede una presa di posizione, ha sempre torto”.
Diciamoci alcune cose allora, con serenità e spirito costruttivo.
Matteo Renzi ha stravinto il congresso del Partito Democratico. Lo ha vinto innanzitutto tra gli iscritti, contro ogni aspettativa di chi non lo sosteneva, ma probabilmente anche con numeri superiori di quelli immaginati de chi lo sosteneva. Questo non è un aspetto di poco conto. E’ invece una questione che ha salvato la dialettica tanto faticosa che nasce dal rapporto tra elettori ed iscritti. Immaginatevi un ormai ridotto gruppo di fedelissimi che indica A ed una marea travolgente che indica B, con regole che danno la priorità a B. Risultato: tragedia.
Dunque, elettori ed iscritti. Il nodo fondamentale di questo congresso è tutto qui.
E’ qui per una serie di motivi.
Il primo è più “interno” e riguarda cioè quello che è accaduto nei gruppi dirigenti. Appassiona ovviamente la persona attiva nelle dinamiche del cosiddetto “apparato” e non è stata sicuramente valutata dai più al momento del voto. Si può declinare così: gli iscritti appaiono ormai stanchi, fiaccati, lontani dalla dirigenza romana (quella bersaniana in primis che in questi anni aveva promesso partito strutturato, ruolo dei territori e una nuova militanza vecchia maniera) e in crisi di identità. La crisi di identità peggiore da quando il Pd è nato. Divisi tra arroccamenti ancora ideologici (Dc-Pci), un bassissimo ricambio generazionale avvenuto negli anni e un modello di partito che non può più reggere per età anagrafica e lettura della società contemporanea.
Questo è un aspetto che Matteo Renzi ha colto fin dalla prima Leopolda e in risposta ha proposto una ricetta (simil veltroniana) dirompente, dirompente sicuramente per quelli che per molti anni erano chiamati i “custodi della verità del Partito”. La ricetta semplificata al massimo suona come un “parliamo al paese e non a noi stessi, apriamo agli elettori perché è a loro che il partito deve guardare, e rilanciamo la vocazione maggioritaria”. Candidarsi a guidare il partito per candidarsi a guidare il paese. Rompere cioè la distanza tra valore dell’iscritto e valore dell’elettore, mettendoli sullo stesso piano e sfumare la distinzione tra ruolo del partito e ruolo di amministratore, a tutti i livelli. La verità diventa quella già percepita da anni dal cittadino normale e cioè che l’amministratore è il partito e viceversa. Sindaco e partito sono la stessa medaglia, il segretario ed il premier pure; il profilo culturale e politico si da amministrando bene e producendo risultati, non facendo mere discussioni ideali nel partito che poi non si trasferiscono nel governo del territorio.
Sotto questo punto di vista si capisce l’enorme differenza di impostazione che, soprattutto nel territorio livornese, ha assunto questo ultimo mese caldo: gruppo dirigente del partito e della maggioranza dei circoli che sostiene la candidatura di Cuperlo a difesa della propria “casa” (“non si fa votare il segretario a chi passa per caso”, “ci vengano loro ad aprire le sedi”, “il segretario ce lo scelgono quelli di destra”) e sostenitori di Renzi che chiedono rispetto per chi pensa che di quella casa ci sia poco da difendere perché è proprio sbagliato ragionare in questi termini; il mondo fuori parla tutta un’altra lingua.
Infatti nel frattempo è arrivato l’8 dicembre e sono arrivati gli elettori. Quella marea umana di persone entusiaste e profondamente stanche della situazione italiana che sono venute nel momento più basso per la tenuta della democrazia e ci hanno mandato un messaggio netto e di speranza: noi vogliamo partecipare, esserci, in forme diverse da quelle che ci proponete, perché non è la casa che va difesa ma va difeso il nostro futuro e quello dei nostri figli e nipoti. E mentre questo stava accadendo, dal fronte dei falchi del partito tradizionale è partita la sarabanda pomeridiana: vengono a votare in massa quelli di destra. “Al lupo, al lupo”. “A monte, a monte”. Ci hanno sperato, lo so, che la vittoria di Renzi fosse di numeri stretti, per poter gridare all’inquinamento del voto. Ma vi è andata male, falchi, mi dispiace.
Quei numeri, quella partecipazione degli elettori, ci ha però dato uno schiaffo. A tutti noi sostenitori locali di uno o dell’altro candidato. Ci hanno detto che non gliene importa un fico secco delle nostre beghe interne perché mentre noi litighiamo, ci è sfuggito il problema: un partito serve se è strumento per loro, non per noi. E lo hanno dato anche a tutti coloro che si professano renziani, ma sono interpreti della stessa ortodossia dell’accordo e del palazzo. Quelli che proprio in queste ore si affrettano a dipingere le segreterie unitarie come il fine, quando queste non potrebbero che essere uno strumento, per aiutare la transizione verso una nuova linea politica.
La line politica. Ecco la chiave, ecco la battaglia più grossa che si è consumata nel territorio livornese tra iscritti ed elettori e che per seguire il ragionamento iniziato prima, chiamo motivo “esterno”.
Partiamo da Livorno. Livorno è tra quei territori in cui Renzi ha perso tra gli iscritti e ancor prima ha legittimamente eletto due segretari non proprio renziani, per lo meno uno sicuramente no (quello comunale) e non credo che me ne vorrà, non è un segreto.
Bene. A Livorno la vittoria dell’8 dicembre di Renzi, guardandola dal punto di vista della linea politica, rappresenta uno tsunami. Come definire altrimenti la prima occasione da quando è nato il Pd in cui le espressioni più alte del partito locale dicono una cosa, in alcuni casi addirittura con tanta foga da apparire lividi di rabbia (vorrei ricordare la conferenza stampa in cui i renziani sono stati definiti democristiani e avvezzi solamente al manuale Cencelli o le dichiarazioni del giorno seguente mosse dall’idea che “20 anni fa saremmo stati in partiti diversi”) e il risultato dice con enorme forza il contrario? E si, qui la partigianeria è stata massima e non si può scusare. Lo scontro è stato talmente radicalizzato, sono state usate tante e tali parole da far dubitare di fronte al “ruolo di garanzia” che taluni dovrebbero ricoprire. Pur nella legittimità e nel dovere per un dirigente di partito di schierarsi, i toni dovrebbero essere diversi.
Vista l’affermazione di Renzi tutti si stanno affrettando a dire che l’aspetto determinante per la sua vittoria è stato il suo raffigurare il cambiamento, non da ultimo l’intervista di Marco Ruggeri ieri sul quotidiano La Nazione. Qui però non ci sto, non prendiamoci in giro. Questo può essere vero per chi sta fuori dalle dinamiche della politica, ma non può essere letta così da chi le vive dal di dentro. Perché il cambiamento interpretato da Renzi non è e non sarà semplificato solo come generazionale ma ha portato con se un rivoluzione copernicana per il Pd. E se è vero che Matteo è Matteo e chi è nelle liste è altra cosa, c’è da considerare chi non è Matteo ma la pensa esattamente come lui, lista o non lista. Decliniamolo rapidamente questo cambiamento. (Per eventuali approfondimenti, non c’è che da leggere il documento che ho sottoscritto con molti altri ragazzi e che è stato condiviso da tantissima persone dentro e fuori dal partito. Perché per noi, il sostegno a Renzi ha significato scegliere un’idea precisa di Pd e di contenuti).
La mozione di Matteo Renzi in pillole. Vocazione maggioritaria, bipolarismo, primarie senza se e senza ma, legge elettorale maggioritaria, Camera della Autonomie ed abolizione del Senato, via i costi della politica, no al finanziamento pubblico ai partiti, apertura al semipresidenzialismo, importanza della leadership, forte ruolo degli amministratori, ricambio generazionale marcato, separazione netta tra partito e sindacato, parlare al popolo delle partite iva, misure a sostegno dell’occupazione e forte modificazione degli ammortizzatori sociali, difesa del sistema contributivo, Stati Uniti d’Europa, merito tanto quanto uguaglianza, flexsecurity etc etc.
E ora la questione da un milione di dollari. Per quelli che le primarie sono la fine del partito, per quelli che leadership è sinonimo di leaderismo, per quelli che Renzi ha vinto solo perché andava in televisione (Cuperlo ci è andato parecchio, ma evidentemente le persone hanno misurato cosa si diceva quando ci si andava…), per quelli che il semipresidenzialismo distrugge l’italia, per quelli che non hanno votato il ritorno al Mattarellum d’estate perché sennò l’avrebbe avuta vinta Renzi, per quelli che il segretario fa il segretario e basta (lo statuto del Pd dice diversamente), per quelli che il Pd è il Pds a cui si è solo cambiato insegna, per quelli che se si dice di cercare i voti dei moderati siamo democristiani, per quelli che dicono che a Livorno si vince sempre e solo difendendo i pilastri tradizionali (Settore pubblico, Compagnia portuali, Sindacato dei pensionati, movimenti alla nostra sinistra), per quelli che non hanno accettato l’analisi del voto dopo le politiche che indicava un Pd che cresceva in quartieri nuovi della città ed abbandonava i suoi feudi, per quelli che insomma insomma bisogna continuare ad essere comunisti anche 25 anni dopo il muro di Berlino… Per tutti questi, ora Matteo Renzi è il nuovo segretario del Partito Democratico e accettando le regola del gioco, ne accettiamo tutti pregi e difetti ma soprattutto ne accettiamo la linea politica. Si può dissentire, contrastare duramente nella dialettica di un partito, ma finchè ci saranno i numeri è normale che quella sia l’idea di partito e di paese ad andare avanti.
Conclusione: come si fa a ritenere “garante” di una linea politica qualcuno che ne ha una profondamente contraria? Contraria rispetto a quella che ha prevalso tra gli iscritti in Italia, e tra gli elettori ovunque? Bah, ci vorrebbe qualche gesto un pochino più forte ma soprattutto il riconoscimento di qualche sbaglio.
Ma si sa, questi meccanismi congressuali del Pd sono strani, e poi tra qualche mese, quando tutto si sarà acquietato, qualcuno farà finta che questo congresso non ci sia stato e ripartiremo nella guerra tra ex e post e tra chi è più “puro”.
Ah, i renziani per me non esistono più. I giornali possono continuare ad alimentare una gara di renzismo ma da domenica, quando l’Assemblea Nazionale vedrà l’inizio effettivo della nuova stagione del Pd, conta solo il Pd, più riformista, più moderno.