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Ab urbe condita. Di Giovanni Cariddi Graziani

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Un nuovo contributo sulla nostra città che pubblico volentieri. Ci è stato mandato da Giovanni Cariddi Graziani, architetto, impegnato nel sociale ed appassionato di politica.

Ab urbe condita

di Giovanni Cariddi Graziani

Fu un secolo veramente orribile il ‘600, di guerre commerciali , religiose e civili. Negli stessi anni avvenne il debutto nel Mediterraneo del porto di Livorno. Un inconsueto argomentare storico lascia poco spazio alla consueta celebrazione agiografica.

Nel secolo delle guerre languirono i commerci e abbondarono carestie. Sui mari l’attività più ricorrente fu quella delle ruberie di corsa. Si depredavano merci e vite con la fragile disciplina dell’appartenenza religiosa. I cattolici e i musulmani si depredavano a vicenda anche se con tregue ed eccezioni. Gli anglicani trattavano e vendevano armi agli Ottomani, tormentavano i quaccheri, e non lesinavano patenti di corsa a propri capitani ai quali non negarono da titoli e perdono reali previo sostanziosi doni alla corona.

Mentre i paesi musulmani lasciavano alle varie comunità libertà di pirateria, in particolar modo ai porti di Tunisi, Algeria e Marocco, i paesi del Mediterraneo ne fecero di un’attività istituzionale con i Cavalieri di Malta. Dietro la scusante della protezione dei pellegrini organizzavano le attività di pirateria a scapito degli “infedeli” e di chi con loro commerciava . Il Granducato fondò in autonomia i Cavalieri di Santo Stefano e la loro flottiglia ebbe base a Livorno. Insieme alle merci trasportate venivano fatti prigionieri passeggeri e marinai. Ridotti in schiavitù finivano, a Livorno, al destino dei remi delle galere, per il funzionamento dell’economia toscana, per ottenere riscatti e, per la carestia che si protraeva nel Granducato, essere scambiati con il grano tunisino come fu nel 1619.

Si sa che trattò il baratto Sebastiano Fabbroni capitano del Bagno di Livorno e delegato al commercio degli schiavi dal Granduca. Si sa anche che la Granduchessa madre avesse ben venti schiavi come patrimonio personale. Il Bagno di Livorno fu edificato sul modello di quelli di Costantinopoli ed Algeri con un’organizzazione industriale ( vi si svolgevano anche lavori ) e sopravvisse fisicamente fino agli anni trenta del secolo passato sebbene poi pudicamente ricordato come Vecchio Spedale, “a circa duecento metri di distanza ,troneggia il gruppo bronzeo dei Quattro Mori eseguito da Pietro Tacca, tuttora uno dei dei più sorprendenti monumenti dell’ideologia schiavista” P.Partner.

Alla fine del secolo quello labronico divenne il più importante mercato di schiavi nel Mediterraneo cristiano. La storiografia anglosassone non lesina documentazioni e diari in merito. La curiosa amnesia nostrana è evidente quando si nota che ben un quinto degli abitanti labronici vivevano nella penosa condizione della galera. Nel diario di uno sventurato inglese, William Davies, si leggono pagine avvilenti. La popolazione vi viene descritta crudele verso questi miseri che, denutriti, se non ai remi sopperivano ai muli per trasportare quanto necessario all’ampliamento della città. Leggere quei diari e quelle note storiche incupisce e maggiormente se si confronta questa cronaca con quanto avveniva in Venezia che, seppur dissanguata dalla battaglia di Lepanto e poi dalla perdita di Candia, rifiutò ed osteggiò il commercio degli esseri umani nonostante potesse con esso rimpinguare facilmente il suo esangue erario.

Che si potesse fare altrimenti ,che questo non fosse il costume civile diffuso lo si può dedurre dalle note di un visitatore da Tunisi che osserva come i tribunali toscani tenessero in poco conto il risarcimento del danno all’offeso (dandolo certo per scontato) ma che perseguissero il reato in quanto infrazione della legge comune, contrariamente alle consuetudini tribali del suo territorio. La consapevolezza del diritto era quindi una intermittenza di comodo.

Per concludere questa nota riporto la storia dei Simon Francesco Franchi, capitano corso che denuncia la vendita come schiavi di due giovani mozzi fiorentini nel porto. Cosa non rara perché donne e bambini furono anche essi merce come cavalli, mucche e pecore come tramanda nel suo diario mr. Davies.

E’ bene ripensare anche il lato oscuro della propria storia evitando recenti e misconosciute sventure protocollari. Quando era uso donare, quale simbolo della città, una riproduzione del monumento ai Quattro Mori l’ambasciatore di un paese africano restò a braccia conserte non apprezzando il dono. Stupefatti ed increduli i maggiorenti, cambiarono omaggio. Passando semplicemente oltre.

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