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Il senso pubblico dell’impresa privata. Intervista a Tommaso Scalsi, titolare dell’osteria La Barrocciaia

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Con questo articolo si apre un ciclo di interviste e racconti su giovani imprenditori livornesi che hanno deciso di assumersi pezzi di responsabilità e di mettere passione in un lavoro, per loro stessi ma anche per cercare di dare un valore ed un rinnovamento a questo territorio. Saranno storie talvolta semplici, altre più complesse, non sempre dall’esito positivo, ma rappresentano comunque uno spaccato importante e di grande dignità. Ad intervistare e raccontare questi spaccati di vita livornese sarà l’amico Federico Bernini.

Intervista a Tommaso Scalsi, titolare dell’osteria La Barrocciaia.

Di Federico Bernini

Da quanti anni gestisci La Barrocciaia?

Abbiamo aperto il 4 luglio del 2002, con mia sorella, dopo un anno di lavori di ristrutturazione del locale.

Tommaso Scalsi è figlio, anzi nipote, d’arte di Giovanni, lo storico ristoratore e “paninaro” di via Ricasoli.

Da lui ho ereditato tutto, da un punto di vista tecnico la licenza, ma anche la cultura della buona ristorazione e del lavoro in cucina. Quando ero più giovane passavo i fine settimana in bottega da lui, per dargli una mano e arrotondare la paghetta della settimana. Questo sicuramente mi ha consentito di vedere cosa fosse il lavoro dentro un’osteria ma non bastava per capire quello che poi ho compreso dopo, la responsabilità e il senso del sacrificio che tutto questo richiede.

Perché a 22 anni invece di scegliere di studiare hai deciso di assumerti il rischio economico e lo sforzo mentale di aprire un ristorante?

Quando abbiamo deciso di iniziare questa impresa ho dovuto sostenere un grande sforzo economico, perché nonno, licenza, nome e insegna a parte, che ho affissa in Barrocciaia, non mi ha lasciato altro. Tutto l’impegno quindi l’abbiamo sostenuto io e mia sorella chiedendo un prestito di 200 mila euro, che la banca ci ha concesso, perché garantiti sulla fiducia di cui godeva mio nonno. Poi l’altro grande sforzo è stato mentale, il cambio di abitudini di vita e entrare in un meccanismo fatto di bollette, avvocati, commercialista, mutui, dipendenti, tasse e scadenze da rispettare, responsabilità dirette per impostare una buona gestione complessiva dell’attività. Di tutto questo a 22 anni non ne ero minimamente consapevole, è stato un percorso complesso e faticoso, dove ogni volta imparavo e comprendevo qualcosa di nuovo.

Ti senti un imprenditore?

Negli ultimi anni si, mi sento un imprenditore. Fino a due anni fa no, ero sopraffatto dal lavoro e dall’enfasi di una gestione troppo collettiva dell’azienda. Ho cercato di cambiare il passo dando maggiore stabilità e un po’ più di rigore alla gestione. Adesso La Barrocciaia è un’azienda che produce utili e questo consente di poter essere solidi e generare investimento.

Ti chiedo se ti senti un imprenditore perché definirsi tale a volte diventa un’etichetta negativa, specie a Livorno. Secondo te esiste un modo per costruire un modello di impresa in grado di corrispondere ai propri valori e alle proprie sensibilità?

Per me essere un imprenditore è una cosa bella, perché costruisci la tua azienda e perché hai la fortuna di poter svolgere il lavoro che ti piace e soprattutto come ti piace; dai l’impostazione alla gestione ed in questo riesci a trasferire il taglio culturale e le modalità di gestione che maggiormente ti corrispondono. É chiara però una cosa: quando sbagli sei te a pagare!

Sei riuscito a creare il modello di azienda nel quale ti riconosci?

Si. Dal punto di vista umano credo di averlo fatto fin dall’inizio, negli ultimi anno sono riuscito ad abbinare l’aspetto umano a quello lavorativo. Il mio impegno è sempre stato quello di creare un equilibrio tra diversi aspetti: i rapporti umani, il rispetto dei diritti dei lavoratori, la qualità del servizio a prezzi popolari e far quadrare i conti. Nei primi anni questo esperimento è fallito, soprattutto rispetto a quelle che erano le scadenze e gli impegni di pagamento: fornitori e tasse. L’esperienza mi ha aiutato a correggere il tiro. Adesso ho un’azienda redditizia, che sta diventando solida ed il rapporto con i dipendenti è buono. Credo comunque che nella vita non si smetta mai di imparare, mi attendo sempre qualcosa di nuovo e di imprevisto!

Cosa vuol dire per te essere imprenditore a 33 anni a Livorno?

Per me essere imprenditore oggi vuol dire avere un ruolo sociale nella comunità che abito. La nostra generazione non ha avuto in eredità niente, se non debiti sociali, economici e culturali e quindi deve trovare un modo per mettersi in gioco: reinventarsi un lavoro, un modo di lavorare e di impostare i rapporti di lavoro, possono essere alcuni strumenti per dare un senso ulteriore a quello che facciamo.

La soddisfazione più grande che ti ricordi?

La crescita umana e professionale che ho fatto dentro la mia azienda e lei con me. Credo di essere riuscito a costruire un locale che è cresciuto anche grazie a valori come l’umanità, la solidarietà e la sincerità. Non sono dell’idea che il cliente ha sempre ragione, credo piuttosto che questo spazio, La Barrocciaia, è un luogo dove i clienti e noi lavoratori possiamo condividere reciprocamente qualcosa; vedo La Barrocciaia come uno spazio di contaminazione di idee che, noi lavoratori e le persone che la frequentano, cerchiamo di sviluppare insieme.

La paura più grande?

Il confronto con il sistema bancario che difficilmente ti appoggia e che poco ti sostiene nei momenti di difficoltà. Direi, dunque, che la paura più grande è legata alle difficoltà economiche che ci sono state negli anni passati. In parte anche per colpa mia perché mi sono trovato a 25/26 anni a gestire grossi capitali senza esperienza e consapevolezza a fronte di grossi debiti accesi per far partire tutta l’impresa: questo ha causato un po’ di dissesti economici che ho dovuto ripianare con molti sacrifici. É difficile trovare qualcuno o qualche istituzione che ti sostiene e ti aiuta ad intraprendere la strada giusta, al contrario, trovi spesso porte che si chiudono e persone che ti disincentivano dal fare certe scelte. Quando è così tutto poi diventa difficile, sorgono i dubbi su quello che fai, nascono le insicurezze e sbagliare è un attimo. Quando arrivi a 30 anni, dovrebbe essere il momento in cui dovresti tirare un primo bilancio di quello che hai fatto e di quello che farai; invece oggi mediamente arrivi a 30 anni e cominci a pensare che devi rimetterti in gioco, ripartire da capo. Il momento più brutto c’è stato quando mio nonno, che aveva garantito per il mio mutuo, è venuto a mancare e la banca mi ha chiesto di rientrare in pochi mesi del residuo del finanziamento, che ammontava ancora a diverse decine di migliaia di euro. Ci tengo a precisare che, fino a quel momento, avevo pagato le rate correttamente, senza ritardi. In quel momento mi sono sentito crollare tutto addosso. Alla fine grazie alla rete di solidarietà familiare, i sacrifici miei e dei dipendenti e un buon avvocato siamo riusciti ad ottenere una dilazione in 12 rate.

Vedresti La Barrocciaia in un’altra piazza?

Assolutamente no. La Barrocciaia è inserita nel tessuto sociale ed economico di Piazza Cavallotti e con la piazza ha costruito un rapporto identitario ed una relazione molto forte; la mattina vive con il ritmo del mercato ortofrutticolo e la sera è vissuta dalla città, giovani, artisti, musicisti, cittadini, l’estate riusciamo anche ad organizzare piccoli spettacoli e tutto questo ha consentito una rivitalizzazione della piazza allontanando le attività più criminose come lo spaccio.

Quanto il ruolo di commerciante e anche di “animatore sociale” che svolgi viene riconosciuto dalle Istituzioni?

Sinceramente da parte delle istituzioni, specie l’Amministrazione Comunale, avverto una certa difficoltà a riconoscere questo ruolo, ma non solo nei mie confronti, ma in generale verso le attività di animazione e aggregazione culturale. C’è una scarsa attenzione verso quelle realtà, magari piccole e indipendenti, che cercano di promuovere un buon livello qualitativo delle attività e della dimensione relazionale. Credo che le istituzioni si rendono conto del ruolo sociale che certe attività hanno solo quando non ci sono più.

 

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