Chi si appassiona alla politologia sa che esiste una creatura importante, massiccia. Si chiama il partito pigliatutto, categoria pensata da Otto Kirchheimer sul finire degli anni sessanta per andare incontro alle esigenze dei partiti di massa di rappresentare bisogni sempre più larghi e di catalizzare queste istanze tramite la vittoria delle competizioni elettorali, a tutti i livelli, e la conquista delle leve di comando di un paese.
Chi non si appassiona alla politologia ne avrà sicuramente sentito parlare con questo nome: il partito a vocazione maggioritaria.
Bene, al buon Kirchheimer oggi potremmo suggerire una nuova categoria: il partito perditutto.
Nel partito perditutto si comincia con il perdere innanzitutto le elezioni. Perché quello che conta è soprattutto dire ai cittadini quello che devono pensare piuttosto che ascoltare quello che chiedono ed hanno da dire.
Dopo aver perso le elezioni, nel partito perditutto, si mette subito in discussione la stessa esistenza del partito, non si discute degli errori, ma si cercano solo vendette incrociate e colpevoli più colpevoli di altri. Insomma, in fin dei conti la linea politica andava bene, era solo una questione di uomo sbagliato o peggio ancora, l’uomo non è stato capito.
Nel partito perditutto se ti rendi conto che per essere compreso fuori dalle segrete stanze devi dire o bianco o nero, si fa largo sempre il grigio. In autunno va anche di moda. Bisognerebbe votare d’autunno.
Nel partito perditutto quando capisci che c’è un problema che mina la tua stessa sopravvivenza, faccio un esempio così a caso, diciamo una legge elettorale, annunci che vi metterai mano, ma poi non lo fai mai e se ne hai l’occasione, meglio rinviare, si cerca sempre la perfezione… Così, nel partito perditutto, finisci col sentirti dire: ma perché quando ne avete avuto l’occasione non avete fatto niente?
Nel partito perditutto si ammirano i leader degli altri paesi, si citano e appendono in camera, ma averne uno in casa propria è un male assoluto da debellare.
Nel partito perditutto, quando c’è un governo con propri esponenti, si rispolvera l’aulico concetto di lotta e di governo: contro se stessi.
Nel partito perditutto è un dovere morale attaccare le divisioni interne. Per cui, quando qualcuno perde una battaglia, è altrettanto un dovere morale creare la propria divisione interna per contestare le altre divisioni interne.
Ma la cosa più bella del partito perditutto è che conta tantissimo vincere il primo tempo, non la partita.
Caro partito perditutto, mi rivolgo a te, con un pizzico di ironia ma tanto affetto: per una volta, risparmia a me e a questo maltrattato paese l’ennesimo spettacolo buffo in cui si parla tanto di te stesso ma non del mondo fuori. Dammi una speranza, un guizzo di follia da seguire. Perché mi piacerebbe che tu lo governassi questo paese, in maniera chiara e decisa, con il ruolo che ti spetta.
E se è vero che un partito vive di una storia collettiva e di un comune sentire, non cadere di nuovo nelle polemiche, nella rabbia, nelle divisioni. Non spingere la discussione su chi è più puro e chi meno, su chi è ospite nella casa dell’atro. Perché una storia collettiva si può scrivere anche guardando al futuro, non solo pensando al passato.
Altrimenti, che peccato. Un’altra occasione già sprecata. Un altro perditutto.