Dopo tre giorni di dubbi amletici su quale argomento scegliere per il mio primo intervento su Fuoricomeva?, ho deciso di raccontarvi un episodio accaduto un bel po’ di anni fa e immortalato in una famosa foto.
Siamo nel 1968, precisamente il 16 Ottobre. A Città del Messico, quell’anno, ci sono le Olimpiadi e, quel giorno, c’è la finale dei 200 metri piani. Ma quello non è un anno qualsiasi: proteste in tutto il mondo occidentale contro l’intervento statunitense in Vietnam, movimenti operai e studenteschi in Europa e in Italia, hippies e svolta culturale e musicale. E anche l’assassinio di Martin Luther King.
Dodici mesi prima, nell’Ottobre del 1967, Harry Edwards, all’epoca ricercatore all’università di Berkeley, aveva fondato l’Olympic Project for Human Rights. L’associazione, nata anche sulla spinta della lotta portata avanti da personaggi quali Martin Luther King e Malcom X, aveva lo scopo di far boicottare dalla delegazione afro-americana le Olimpiadi che si sarebbero disputate l’anno successivo. Il proposito era, però, difficilmente realizzabile. Si ripiegò quindi sulla libera partecipazione alle gare, lasciando agli atleti la scelta di indossare o meno una coccarda che manifestasse la vicinanza ai movimenti che in quegli anni si battevano per i diritti umani.
Ma torniamo alla gara.
Lo starter dà il via e dopo 19 secondi e 83 centesimi Tommie Smith – per la stazza molto simile a Usain Bolt – taglia il traguardo. E’ record del mondo. Primo uomo a scendere sotto il muro dei venti secondi. Dietro di lui Peter Norman, medaglia d’argento, e John Carlos, bronzo.
Tommie Smith ha 24 anni, nasce in Texas da una famiglia di origini africane (è settimo di undici figli). Suo padre raccoglie cotone nei campi. Carlos, ventitrenne, anche lui nero, figlio di un calzolaio, è nato e cresciuto a New York, quartiere di Harlem. Entrambi i ragazzi corrono forte e sono stati quindi ammessi alla San Josè University, dove studiano sociologia e si allenano per le gare. E poi c’è Norman, bianco, ventisei anni, australiano, cresciuto in una famiglia molto credente.
Nel sottopassaggio che porta dagli spogliatoi al podio i due atleti afro-americani si preparano per manifestare. Ogni dettaglio è curato e simbolico: i piedi nudi indicano la povertà, le pietre della collanina di Carlos rappresentano tutti i fratelli neri che si sono battuti contro la discriminazione razziale e sono stati linciati, la coccarda sul petto è il simbolo della protesta.
Norman, che è lì con loro nei minuti precedenti la premiazione, dice: “Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti”. E poiché Carlos ha dimenticato i guanti neri al villaggio, consiglia ai due di mettersene uno ciascuno.
Smith e Carlos seguono il consiglio e salgono sul podio. Testa piegata e pugno al cielo. Pochi capiscono, nessuno applaude. In tanti urlano offese.
La loro carriera sportiva finirà quella sera. I due ragazzi vengono cacciati dal villaggio olimpico su pressioni del presidente del CIO e passeranno il resto dei loro giorni nell’anonimato. O quasi: a casa di Smith arriveranno pacchi pieni di escrementi, a casa di Carlos, invece, minacce telefoniche ad ogni ora del giorno e della notte. Per la disperazione sua moglie si ucciderà.
Stessa sorte per Norman. Il più grande sprinter australiano di ogni tempo, nel suo paese diventa “mister nessuno”. Supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 e 5 quello per i 100, ma è inspiegabilmente estromesso dalla delegazione per Monaco ’72. Con il suo tempo (20′ 06”) avrebbe vinto l’oro anche 32 anni dopo, a Sydney 2000, ma non verrà coinvolto nell’organizzazione dell’evento. Neanche invitato.
Sotto il tunnel, Norman avrebbe potuto voltarsi dall’altra parte, fare finta di niente. Invece decise di essere al fianco dei due americani.
“Se ne pentiranno per tutta la vita”, aveva pronosticato subito dopo la premiazione il capo-delegazione della nazionale statunitense.
Norman non se ne pentì mai. E neppure gli altri due.
Ecco. In questa calda Estate di banane, oranghi e camicie verdi, a me faceva piacere raccontarvi una storia così.