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Responsabilità civile dei magistrati, un bilancio non roseo a venticinque anni dall’entrata in vigore della “legge Vassalli”

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“Piaccia o no, al giudice dei tardi anni ’80 non si chiede più di presentarsi su un piedistallo come la voce solenne della legge, ma di muoversi con sicurezza tra i mille conflitti che la società porta sul suo tavolo componendoli in modo equo, competente e rapido. In altre parole, gli si chiede, come dicono gli americani, di essere un problem solver o, se l’espressione appare anodina, uno specialista della razionalizzazione sociale. Più forte, dunque, il magistrato attuale perché più presente e indispensabile; ma anche più simile ai funzionari amministrativi delle categorie medio-alte e, sotto qualche aspetto, più professionista nel genere dell’arbitro o del mediatore. Più vicino, in definitiva, alle figure del terziario pubblico e privato che rispondono per dolo e per colpa grave”.

Così il giurista Giuseppe Federico Mancini scriveva sulle pagine del Corriere della Sera a pochi giorni di distanza dal referendum che, l’8 novembre 1987, decretò la schiacciante vittoria del “sì” all’abrogazione delle disposizioni all’epoca vigenti in materia di responsabilità civile dei magistrati (artt. 55, 56 e 74 c.p.c.).

Le suddette disposizioni – è d’uopo ricordarlo – circoscrivevano la nascita dell’obbligazione risarcitoria al verificarsi di quattro figure tipiche di illecito (dolo, frode, concussione e diniego di giustizia), escludendo, pertanto, dall’area coperta dalla responsabilità tutta una serie di inosservanze (anche gravi), nelle quali i giudici avrebbero potuto non irrealisticamente incorrere durante l’esercizio delle loro funzioni. A rendere la disciplina ancor più macchinosa contribuiva, inoltre, il fatto che, ai sensi dell’art. 56, primo comma, c.p.c., la domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non poteva essere proposta in difetto della previa autorizzazione del Ministro di Grazia e Giustizia: circostanza, quest’ultima, che rendeva il diritto al risarcimento del danno de facto non azionabile in giudizio dal cittadino leso dalla condotta antigiuridica del magistrato.

La vittoria del fronte abrogazionista rispose senza dubbio alle legittime aspettative di giustizia provenienti in quegli anni da vasti settori dell’opinione pubblica, gravemente turbata da talune vicende giudiziarie che, alla prova dei fatti, si dimostrarono erronee, avventate e manifestamente ingiustificate (basti pensare al tristemente famoso “caso Tortora”). Tuttavia – come emerge chiaramente dalle parole di Mancini – in quella vittoria fu possibile riscontrare un dato ben più profondo e gravido di conseguenze: il superamento del dogma della sacralità della funzione giudiziaria. Sarebbe alquanto riduttivo affermare che a mettere in ombra siffatto dogma abbiano provveduto gli stessi magistrati con una serie di comportamenti, non sempre e non tutti condannabili, ma certo tali da modificare profondamente l’immagine che di essi aveva il pubblico. Il processo di laicizzazione del ruolo del magistrato è, infatti, un fenomeno molto più complesso, che ha proceduto di pari passo con le grandi trasformazioni intervenute nella società italiana a partire dal secondo dopoguerra. Si ponga mente, per un attimo, ai grandi sconvolgimenti che nel nostro sistema giuridico hanno provocato la nascita e lo sviluppo del welfare state, la riforma del diritto di famiglia, l’adesione all’ordinamento comunitario (con tutto il carico di conseguenze che ciò ha comportato sul versante dell’adeguamento della legislazione nazionale), l’accensione di mille fuochi corporativi nel pubblico impiego, così come l’occupazione di vecchi e nuovi centri di potere da parte dei partiti politici. Quali effetti tali fenomeni abbiano prodotto sul ruolo della funzione giudiziaria è del tutto evidente: il magistrato è, al giorno d’oggi, una figura che i cittadini incontrano sul loro cammino con una frequenza a dir poco impensabile fino a cinquant’anni fa. E’ tuttavia parimenti evidente che ciò, se da un lato ha enormemente accresciuto il potere dell’organo giudiziario, dall’altro ha “sgualcito” – sempre per dirla con Mancini – “l’aureola che la statica e gerarchica società di un tempo scorgeva intorno al suo capo”.

L’abrogazione delle norme ultra-restrittive previste dal Codice di procedura civile avrebbe dovuto suggerire al Parlamento l’approvazione di un nuovo testo normativo che, prendendo atto delle istanze provenienti dal corpo elettorale, regolasse la responsabilità del magistrato in maniera più consona al suo moderno ruolo di “mediatore”. Sennonché – come troppo spesso accade nel nostro Paese – il prevalere di tendenze conservatrici e di interessi corporativi, unitamente alle legittime preoccupazioni che regole di responsabilità troppo rigide nei confronti del magistrato potessero comprometterne la libertà e l’integrità in sede di giudizio, si tradussero nella formulazione di una disciplina, di cui colpisce principalmente la sostanziale mancanza di effettività (si contano, infatti, soltanto quattro condanne in… venticinque anni!).

La disciplina anzidetta è racchiusa nella legge 13 aprile 1988, n. 117, meglio conosciuta come “legge Vassalli” (dal nome dell’allora ministro di Grazia e Giustizia), recante disposizioni in materia di “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”.

Le ragioni della scarsa effettività della legge sono da ricercarsi, almeno in parte, nel suo stesso impianto strutturale, al quale va imputata la creazione di un sistema eccessivamente garantistico a favore dei danneggianti. Infatti, mentre all’art. 2, primo comma, si stabilisce che chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave possa chiedere allo Stato il risarcimento del danno, al secondo comma dello stesso articolo ci si premura immediatamente di precisare che: “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove” (c.d. “clausola di salvaguardia”). Ciò comporta, ad esempio, che una violazione di legge anche grave, ma non determinata da negligenza inescusabile, non potrebbe mai dar luogo al risarcimento del danno a carico del magistrato che l’abbia posta in essere, giacché un’interpretazione sia pure opinabile e discutibile della norma giuridica rientrerebbe pur sempre tra le opzioni ermeneutiche astrattamente consentite dalla legge (v. Cass., 18 marzo 2008, n. 7272). La limitazione appare ancor meno comprensibile, se si considera che già altre norme della medesima legge pongono l’esercizio della funzione giurisdizionale al riparo da iniziative meramente intimidatorie e persecutorie nei confronti degli appartenenti all’ordine giudiziario. La scelta di eleggere quale naturale destinatario dell’azione di responsabilità civile lo Stato, anziché il magistrato – che risponde delle sue azioni soltanto nel giudizio di rivalsa (art. 7) – appare, infatti, chiaramente ispirata dalla volontà di coniugare il principio di indipendenza con quello, altrettanto irrinunciabile, della responsabilità. Alla stessa necessità di contemperamento deve inoltre ritenersi improntata la formulazione dell’art. 4, secondo comma, il quale, al fine di evitare che l’azione risarcitoria si trasformi in un improvvido mezzo d’impugnazione, stabilisce che la domanda giudiziale non può essere proposta in qualsiasi momento successivo al verificarsi del fatto che ha cagionato il danno. E’ richiesto, infatti, che, prima di azionare la pretesa risarcitoria, siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e, comunque, che non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento, ovvero, se tali rimedi non sono previsti, che sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato l’illecito.

Un altro motivo dell’insuccesso del regime di responsabilità introdotto dalla “legge Vassalli” deve essere senz’altro ascritto al modo in cui la magistratura ha costantemente interpretato il disposto dell’art. 5, ai sensi del quale: “il tribunale, sentite le parti, delibera in camera di consiglio sull’ammissibilità della domanda di cui all’art. 2 (…). La domanda è inammissibile quando non sono stati rispettati i termini o i presupposti di cui all’articoli 2, 3 e 4 ovvero quando è manifestamente infondata”. Il filtro del preventivo giudizio di ammissibilità dell’azione, volto a scongiurare il pericolo di liti temerarie, capaci unicamente di ledere l’autonomia e il prestigio dell’ordine giudiziario, si è rivelato nella pratica una barriera invalicabile, che ha finito col ridurre drasticamente le ipotesi di istruzione della causa nella fase successiva del processo. Anche in questo caso, sono i numeri a parlare: dal 1988 al 2010, in tre sole occasioni si è riusciti a superare le “forche caudine” della preventiva ammissibilità della domanda (Trib. Brescia, 29 aprile 1998; Cass., 30 luglio 1999, n. 8260; Cass., 20 settembre 2001, n. 11859).

Nel dibattito sul tema della responsabilità civile del magistrato si è inserita anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea con una serie di pronunce, delle quali non si può non dare conto – sia pure brevemente – in questa sede.

Nella sentenza 30 settembre 2003 (Kobler c. Republik Osterreich) la Corte di Lussemburgo ha sancito che uno Stato membro risponde per i danni cagionati da violazioni del diritto comunitario, quale che sia l’organo pubblico la cui azione od omissione abbia dato origine alla lesione; ne deriva, pertanto, che tra i soggetti chiamati a render conto della propria condotta lesiva debbono essere ricompresi anche gli organi giurisdizionali di ultimo grado. In tale ultimo caso, tuttavia, la responsabilità può sussistere solo nell’ipotesi eccezionale, in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta le norme comunitarie vigenti. Ancor più incisivamente, nella sentenza 13 giugno 2006 (Traghetti del Mediterraneo S.p.a., in liquidazione c. Repubblica Italiana) la Corte europea ha affermato che la responsabilità dello Stato deve sorgere anche quando una violazione manifesta del diritto risulti da un’attività di interpretazione di norme giuridiche, ovvero di valutazione dei fatti e delle prove. Inoltre, ha ritenuto incompatibile con la normativa comunitaria la legge nazionale italiana, nella misura in cui limiti la sussistenza della responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice. Nella conclusioni, la Corte di Giustizia ha chiarito che, per adeguarsi all’ordinamento comunitario, la legge italiana dovrà essere integrata, al fine di consentire al privato cittadino il pieno diritto al risarcimento dei danni anche quando la sentenza definitiva sia frutto di una errata interpretazione delle norme europee, ovvero di una erronea valutazione dei fatti e delle prove operata nell’ultimo grado di giudizio, ovvero ancora di una violazione manifesta del diritto europeo vigente.

Si consideri inoltre che, a fronte della mancata integrazione normativa, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia, contestando al nostro Paese i rilievi avanzati dalla Corte di Strasburgo. Tale procedura – com’era facile prevedere – si è conclusa il 24 novembre 2011 con una sentenza di condanna. Le conseguenze che ne discendono non sono certo di poco conto: la legge sulla responsabilità civile dei magistrati dovrà, infatti, essere modificata – o, quanto meno, disapplicata – per consentire al cittadino di agire contro lo Stato anche quando l’organo giudiziario abbia manifestamente violato il diritto comunitario, compiendo errori nell’interpretazione delle norme o nella valutazione dei fatti e delle prove. Si pone, inoltre, l’esigenza di assicurare un’uniformità di trattamento a situazioni che presentano evidenti profili analoghi. Infatti, rimanendo inalterato il quadro normativo nazionale, si potrebbe giungere al paradosso per cui, mentre il danno derivante da erronea interpretazione del diritto europeo troverà sempre riparazione nelle aule di giustizia, viceversa quello cagionato da analogo errore, che comporti violazione delle norme di diritto interno, dovrebbe condurre al rigetto della pretesa risarcitoria.

Sulla scia delle summenzionate pronunce della Corte di Strasburgo, il 2 febbraio 2012 la Camera dei Deputati approvava – nonostante il parere contrario del governo – un emendamento al disegno di legge comunitaria per l’anno 2011, presentato dall’on. Gianluca Pini della Lega Nord, che introduceva due rilevanti modifiche all’impianto originario della “legge Vassalli”. In primo luogo, si prevedeva che – in ossequio alle indicazioni provenienti dall’Europa – la responsabilità civile del magistrato, oltre che ai casi di dolo, colpa grave e diniego di giustizia, venisse estesa alla manifesta violazione del diritto. In secondo luogo, veniva ammessa l’azione diretta nei confronti del magistrato, mediante la quale il soggetto asseritamente danneggiato avrebbe potuto far subito valere la sua pretesa risarcitoria nei confronti del materiale autore dell’illecito. Tale ultima modifica appare però censurabile, ove si consideri che essa avrebbe potuto comportare un vulnus alla serenità ed all’indipendenza di giudizio dei magistrati, esponendoli ad indebite pressioni psicologiche da parte dei privati.

Le polemiche suscitate dal c.d. “emendamento Pini” costringevano il governo presieduto da Mario Monti, tramite il Ministro della Giustizia, Paola Severino, a intervenire direttamente sulla questione, presentando un nuovo emendamento al testo del disegno di legge comunitaria. L’emendamento ripristinava il principio della responsabilità civile indiretta, stabilendo che “chi ha subito un danno ingiusto posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivano da privazione della libertà personale”. Veniva poi sostituita alla “grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile” – che costituisce il primo fra i casi di colpa grave previsti dalla “legge Vassalli” – la “violazione manifesta della legge e del diritto comunitario”. In futuro, quindi, avrebbe costituito colpa grave del magistrato una tale violazione del diritto interno o di quello comunitario europeo. Si prevedeva inoltre che, per determinare questa circostanza, si dovesse tener conto del “grado di chiarezza e precisione delle norme violate, dell’inescusabile negligenza nell’errore e della gravità dell’inosservanza”. Infine, allo scopo di evitare che una simile innovazione rimanesse sostanzialmente priva di effetti pratici, veniva prevista l’abrogazione della già ricordata “clausola di salvaguardia”. Come si visto, infatti, è proprio sulla base di detta clausola, intesa in termini molto estesi, che la giurisprudenza della Cassazione ha circoscritto il concetto di “grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile” ai soli casi di interpretazione contrastante con ogni criterio logico o riprovevole sul piano ermeneutico. L’ “emendamento Severino” è tuttavia rimasto lettera morta.

Il 10 aprile di quest’anno – su iniziativa di Radicali italiani – sono stati depositati presso la Corte di Cassazione sei referendum, tra i quali figura nuovamente il quesito avente ad oggetto la parziale abrogazione della “legge Vassalli”.

Ebbene, per l’ennesima volta nella storia dell’Italia repubblicana – osserva Michele Ainis sul Corriere della Sera di oggi – “sui referendum si scarica un’energia riformatrice che i partiti sono incapaci di risolvere”. Ciò vale in particolar modo per la responsabilità civile dei magistrati, la cui regolamentazione, si è detto ampiamente, pare essersi risolta in questi venticinque anni in un regime di irresponsabilità (quasi) assoluta a favore degli appartenenti all’ordine giudiziario.

In conclusione, solo quando si comprenderà che autonomia e responsabilità non danno luogo ad un’inconciliabile antinomia, si potrà giungere alla stesura di una disciplina veramente efficace, in cui la prima sia salvaguardata nei suoi postulati essenziali mediante l’individuazione delle forme e dei limiti delle seconda. Diversamente, non resterà che affermare: licet iudex legibus solutus.

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