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La politica di emergenza. Il caso Goldoni

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Non si fa in tempo a iniziare un ragionamento sulla cultura cittadina che subito emergono nuovi spunti su cui riflettere, anzi possiamo tranquillamente dire che ce la mettono tutta per non farci rilassare. Un po’ come quando era premier il buon Silvio, che offriva una quantità infinita di spunti per la satira politica. Stavolta però ci sono andati giù pesanti, addirittura si minaccia di chiudere il Teatro Goldoni, il fiore all’occhiello della cultura “istituzionale” labronica, inaugurato, dopo un restauro durato molti anni, nel 2004 e quindi con nemmeno dieci candeline sul groppone.

Milioni di euro per riaprire le porte di un bellissimo teatro classico, rivisitato in chiave moderna. Peccato che di moderno sia stata realizzata solo la struttura, mentre la gestione di questi nove anni è stata ancorata a un sistema obsoleto e soprattutto esclusivamente dipendente dai finanziamenti pubblici. Esatto, solamente nove anni di vita e siamo già ai proclami di chiusura.

Come si può permettere che una struttura efficiente e ben fatta come il Teatro Goldoni sia sul lastrico, nonostante il milione e mezzo di soldi pubblici incamerati ogni anno, è veramente un mistero. Più che alla gestione di un teatro sembra di rivedere i bilanci di qualche ente parastatale degli anni ottanta, con quei buchi tipici degli anni d’oro della gestione allegra dell’ormai compianto denaro pubblico. Possibile che nessuno si sia accorto dei profondi cambiamenti che la nostra società sta attraversando?

Anche se hanno dinamiche molto diverse, mi viene automatico un parallelismo con un’altra tragedia livornese, il fallimento dell’ippodromo Caprilli. Altra struttura con forte presenza pubblica e medesimo risultato: dipendenti senza lavoro e struttura chiusa. Possibile che nessuno abbia colto i segnali della crisi del mondo dell’ippica a seguito della liberalizzazione delle scommesse? Stento a credere che nessuno abbia ipotizzato l’inevitabile tracollo delle corse dei cavalli con il costante calo di spettatori e soprattutto scommettitori, orientati ormai verso altri sport più popolari, agevolati anche da differenti margini di vincita (e anche qui mi fermo perchè l’analisi andrebbe approfondita seriamente e non ridotta a poche righe).

Stessa sorte rischia di subire il Goldoni se l’attuale gestione intende arroccarsi dietro lo spettro dei licenziamenti e dell’impatto mediatico che potrebbe causare la chiusura del teatro. Già da alcuni anni buona parte della programmazione è stata possibile grazie a privati, con importanti spettacoli che hanno abbracciato la prosa ma anche concerti di musica d’autore e di grandi interpreti, portando migliaia di spettatori.

E questo nonostante il costo giornaliero della struttura sia attualmente proibitivo, intorno ai cinquemila euro giornalieri, con il risultato di sfavorire l’avvicinarsi non solo di altri operatori culturali ma anche di fette di pubblico diverse dal solito clichè del “salotto buono” della città (a causa del costo dei biglietti in proporzione alle spese sostenute). Ogni volta che sento parlare di salotto buono, inevitabilmente questo si trasforma in uno scantinato abbandonato.

Probabilmente perché la nostra città non ha bisogno di un salotto buono, ma di posti vivi, moderni, che sappiamo interpretare i bisogni che provengono dalla cittadinanza. Dei posti che non devono essere delle mignatte attaccate al seno dell’amministrazione pubblica, ma dei centri di aggregazione polivalenti, coadiuvati dall’amministrazione ma in grado di andare avanti con le proprie forze, modulando anche fisicamente gli spazi a disposizione, in relazione alle attività da intraprendere.

Un teatro dove il direttore artistico abbia una visione artistica e funzionale della programmazione, con un organico che non sia esclusivamente politico ma abbia competenze di settore. Un teatro al passo con i tempi, con un sito efficiente (l’attuale ha ancora delle pagine in costruzione) e una strategia di comunicazione capillare (possibile che la pagina Facebook del Goldoni abbia meno di 3700 like?). Insomma un teatro che non abbia l’ardire di minacciare la chiusura perché gli mancano i soldi nonostante l’abbondante milione di euro ricevuti. Perché la Cultura non ha bisogno di un assegno di invalidità per andare avanti ma vuole solamente gli strumenti per camminare con le proprie gambe, garantendo occupazione e investimenti.

Non possiamo più permetterci che la politica si occupi solamente delle emergenze, dobbiamo pretendere e attivarci per fare in modo che la politica inizi a cambiare atteggiamento. La politica deve riprendere a programmare, interpretare e indirizzare in base ai propri convincimenti.

La politica di emergenza non ha linee di pensiero, è solamente un tentativo di sopravvivenza, e come tale assomiglia a tutti gli altri, da qualunque parte politica provenga.

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