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Dalla crisi subprime all’eccesso di austerity

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La crisi globale economica e finanziaria, esplosa nel 2007 a seguito dell’abuso negli USA della cartolarizzazione finanziaria di mutui c.d. subprime, ovvero a rischio insolvenza, ha prodotto un devastante effetto a catena culminato con il fallimento di grandi banche di investimento, spostandosi poi all’economia reale, dove ha generato un forte rallentamento dell’economia mondiale. Arrivata anche in Europa, la crisi ha fatto sentire fortemente i suoi effetti, in particolare generando una notevole difficoltà nell’accesso al credito, sia per le aziende, sia per i normali cittadini, determinando un aggravio alla già precaria condizione dei conti pubblici e producendo lo sforamento dei parametri imposti dai Trattati Europei, soprattutto a causa del calo verticale relativo al PIL nazionale. A partire dalla Grecia, passando per gli altri Stati denominati con il poco onorevole acronimo “P.I.I.G.S.”, queste difficoltà si sono tradotte in una crisi del debito sovrano, dove cioè ad essere posto in dubbio dagli investitori non era più la capacità di soggetti privati di onorare i propri debiti, ma addirittura la capacità degli Stati nazionali di restituire quanto contratto a prestito, aprendo in questo modo il fianco alla speculazione finanziaria e comportando un necessario intervento da parte degli stessi Stati e da parte di strutture sovranazionali quali la BCE, il FMI e l’UE onde evitare lo spauracchio del default.

Il fallimento anche di un solo piccolo Stato dell’Unione Europea avrebbe avuto effetti devastanti sull’economia del continente, vi sarebbe stata una svalutazione del debito di proporzioni mai viste, con potenziali effetti a catena a nocumento anche di quegli Stati ritenuti virtuosi. E’ per questo motivo che nonostante i tentennamenti iniziali dovuti a questioni prettamente elettorali (vero Frau Merkel?) vari organismi ed entità sono intervenuti fornendo sostegno agli Stati in difficoltà. Non quindi per un intento solidaristico ma, forse, esclusivamente per tutelare interessi propri, in particolare di quelle banche che avevano ivi investito, proprio grazie alle potenzialità di un lucroso ritorno economico. Purtroppo la lentezza con cui la c.d. Troika è intervenuta ha comportato un ulteriore deterioramento delle condizioni di questi Stati in difficoltà. La leggerezza con cui questi Stati, tra cui l’Italia, si sono colpevolmente ritrovati nella incapacità di far fronte autonomamente al proprio debito è stata duramente pagata nei mesi successivi attraverso le c.d. misure di austerity imposte dall’Unione Europea, grazie anche all’eccesso di attivismo del commissario finlandese Olli Rehn, che, caratterizzato da una granitica posizione filo-tedesca volta al risanamento a tutti i costi, ha causato l’ingresso in una profonda recessione da cui ancora, a due anni di distanza, non si riesce ancora a percepire la fine.

Effettivamente, ognuno degli Stati che hanno fatto ricorso ai fondi “salva stati” avevano delle debolezze strutturali di fondo: la Grecia aveva addirittura falsificato i propri conti pubblici per consentire l’ingresso e la propria permanenza nell’area Euro, il deficit di Irlanda, Portogallo e Spagna avevano raggiunto, per motivi diversi, livelli altissimi, talvolta a doppia cifra, l’Italia (in realtà unico paese ”mediterraneo” a non aver fatto ricorso ai fondi salva stati) ha raggiunto un rapporto debito/pil doppio rispetto a quanto consentito dal Trattato di Maastricht. Preso atto di tutto ciò, e pur considerandolo innegabile, appare evidente che queste misure richieste, pur avendo calmato la speculazione, comportando una notevole diminuzione del costo di rifinanziamento del debito, hanno comportato una tale riduzione dell’attività economica sì da essere essa stessa una ragione eziologica del peggioramento dei conti pubblici: se per far venir meno le misure di infrazione occorre (tra l’altro) portare il rapporto deficit/pil al di sotto del 3%, questo può sì essere perseguito riducendo le spese e aumentando le entrate, ma se si presenta una corrispondente diminuzione del PIL, il risultato dell’austerity verrebbe completamente neutralizzato dal calo del PIL, comportando tuttavia profondi disagi a livello sociale, soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione, così come puntualmente è avvenuto. Se l’intento dell’austerity era quello di favorire politiche virtuose e rilanciare in questo modo l’economia, l’eccesso di austerity ha comportato una riduzione dell’attività economica dovuto principalmente al calo dei consumi interni. E’ proprio sui consumi interni che si gioca il rilancio dell’economia e il tentativo di soluzione di quel problema che più di tutti sta colpendo l’Europa: la disoccupazione, ed in particolare la disoccupazione giovanile. E’ il Fondo Monetario Internazionale stesso ad aver ammesso di aver richiesto misure eccessivamente restrittive agli Stati in difficoltà. L’Italia ha centrato l’obiettivo di portare il proprio rapporto deficit/pil sotto il 3% entrando quindi nella cerchia degli Stati virtuosi. Questo deve essere rivendicato con forza, cercando eventualmente sponda con altri paesi membri dell’Euro per far sì che la fatidica soglia del 3% non rappresenti un simulacro inviolabile ma che, con l’accordo politico frutto del senso di responsabilità dimostrato negli sforzi fatti, consenta di tenere alcune spese per investimento al di fuori da questo computo. Sono certo che se le spese fossero per investimenti considerati di sicura remunerazione anche i mercati finanziari vedrebbero con fiducia questa possibilità. Purtroppo, l’Italia si porta ancora dietro un pesante fardello, quello del debito pubblico, il più alto d’Europa, che comporta un costo annuale per le casse dello Stato in interessi pari a quasi 100 miliardi e che fanno da freno a qualsiasi intento di riduzione della pressione fiscale.

L’Italia, a seguito della lettera della BCE scritta a quattro mani da Trichet e Draghi (Governatore in carica e neogovernatore in pectore della Banca Centrale Europea), con cui venivano richieste una serie di dettagliate misure draconiane, è intervenuta, soprattutto tramite il Governo Monti, con una serie di riforme e di nuove imposte che hanno ristabilito i conti pubblici in ordine. Sono state misure efficaci in quanto ai risultati, poiché hanno effettivamente determinato un miglioramento dei conti pubblici, ma non efficienti, poiché queste misure hanno gravato pesantemente sulla vita dei cittadini, comportando un forte innalzamento del tasso di disoccupazione e diffondendo forti disagi soprattutto a livello sociale. Non è certo l’IMU sulla prima casa la questione dirimente, di essa è tuttalpiù utile una sua rimodulazione in modo da garantire un’effettiva progressività tenendo indenni le fasce veramente deboli della popolazione. Già l’intervento di Davide Passetti su questo blog (https://www.fuoricomeva.it/italia/il-punto-della-discordia/) ha mostrato la pericolosità dell’aumento dell’IVA al 22%, a me, invece, preme ricordare l’eccessivo peso del cuneo fiscale, argomento che verrà trattato in un futuro articolo. I nostri governanti, tuttavia, sono chiamati a fare delle scelte, immediate, in modo da allocare le poche risorse disponibili dove serve. La pressione fiscale nel nostro paese è già sufficientemente elevata, per un suo rilancio non servono nuove tasse o tributi, quello che serve è un rilancio della produttività tale da consentire, a parità di input, una forte crescita delle unità di output prodotto, ma per fare questo servono nuove energie e nuovi investimenti.

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