In questi mesi politicamente confusi, molti elettori di centrosinistra e, soprattutto, molti militanti del PD, si sono chiesti com’è che siamo arrivati alle “Larghe Intese” (anche se al momento, è più giusto definirle “larghe attese”, n.d.r) qual è stato l’iter politico seguito dalle forze in campo, dai partiti, dal Capo dello Stato, per arrivare alla formazione del Governo Letta.
Vediamolo.
“Il Governo deve avere la fiducia della due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e per appello nominale”.
Questo recitano i primi due commi dell’art.94, sufficienti per il caso da esaminare.
Le radici storiche di questi due commi sono abbastanza evidenti,cioè il principio liberale del “potere che arresti il potere”: due Camere con uguali competenze e che soprattutto, possano ugualmente porre la questione di fiducia, renderanno il Parlamento centrale nell’iter legislativo, e il Governo meno invadente (non dobbiamo dimenticare, che la Costituzione è stata scritta dopo venti anni di dittatura totalitaria, la paura dell’Esecutivo troppo forte, era comprensibile).
Fatta questa doverosa premessa storico-politica, veniamo al fatto in se:come si lega l’articolo in questione col Governo Letta.
La risposta è semplice e da ricercarsi, principalmente, nel primo comma: “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”, concetto che Napolitano avrà ripetuto più e più volte a chi gli chiedeva, anche con una certa arroganza, di poter andare comunque in Parlamento a “cercare i numeri” per governare. Avrà avuto il suo bel da fare il Capo dello Stato a spiegare che, aritmeticamente i numeri per un “governo di minoranza, di non sfiducia o di cambiamento” (chiamatelo come volete, l’impressione erano alchimie da Prima Repubblica) non c’erano. Perché questo era il dato che emergeva dalle consultazioni: a votare la fiducia a un governo del genere, sarebbero stati solo due partiti, PD e SeL.
Per questo siamo giunti alle “Larghe Intese”, per un giusto principio “politico-aritmetico” sancito dalla Costituzione (l’art.94)
Da iscritto al PD non vorrei ripetere l’esperienza di questo governo, per me imbarazzante al pari di un eventuale accordicchio al ribasso con Grillo e RO-DO-TA’, quindi: “Che Fare?”, avrebbe detto Lenin.
Usciremo da questa situazione di stallo, modificando la seconda parte della Costituzione e, parallelamente, la legge elettorale.
Le opzioni che si presentano possono essere due:
-Riforma “Minimalista”: abolizione dell’attuale Senato e sua trasformazione in “Camera delle Autonomie”. Così facendo solo la Camera avrebbe la funzione politica di votare la fiducia(o la sfiducia) al Governo. A questo punto resta il nodo della legge elettorale; doveroso cambiarla per superare l’orrido “Porcellum” restituendo ai cittadini la possibilità di scelta del candidato:preferenze o collegi (e, per quanto vale, la mia scelta ricade su questi ultimi).
-Riforma Organica: adottare un sistema Semipresidenziale sul modello francese, cioè eleggendo direttamente il Capo dello Stato, con una Camera politica eletta con un sistema maggioritario a doppio turno. In questo modo verrebbe garantita la governabilità e la possibilità di scelta degli elettori. Se questo modello uscirà vincente dalla discussione, la premessa è d’obbligo: adottare una seria legge su I conflitti di interesse (superfluo citare il più macroscopico di tutti: Berlusconi).
La seconda ipotesi è certamente la più ardita, da valutare con estrema cautela, e soprattutto con spirito laico: non è accettabile anteporre il bene di partito (“Non il semipresidenzialismo, vince Berlusconi”, refrain caro a molti alti dirigenti del PD,ma del tutto privo di consistenza, infantilismo allo stato puro) al bene di questo, ahinoi, sciagurato Paese.
Queste sono, per sommi capi, le vie d’uscita dalla crisi istituzionale(senza dimenticare quella economica) in cui ci siamo cacciati a partire dal ‘92, con la crisi della “Prima Repubblica”. Parlamento e Governo trovino una sintesi o l’Italia sarà condannata all’ingovernabilità, germe del populismo e delle dittature.