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In alto mare

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Mercoledì 18 febbraio stavo leggendo un libro per parlarne in questo post. Si tratta di un bel reportage di un giornalista italiano, Antonio Caiazza, che nell’arco di quasi 25 anni ha voluto riassumere le sue impressioni su questo Paese così vicino all’Italia, l’Albania. Caiazza c’è stato appena dopo la fine del comunismo, cioè nel 1991 e poi ha continuato a occuparsene fino al 2008, quando ha pubblicato questo diario-inchiesta, In alto mare, edito da InstarLibri. Mentre leggevo le ultime pagine ho acceso la televisione. Con sorpresa, su La7, ospite di Daria Bignardi a Le invasioni barbariche, ho visto l’attuale Primo Ministro albanese Edi Rama.

Di questa figura della storia contemporanea albanese avevo appena letto molte e molte cose nel libro di Caiazza. Vederlo, però, in una trasmissione italiana, con l’allure di un fascinoso ospite in giacca, mi ha colpito. L’immagine di questo statista colto e un po’ eclettico, che da giovane era stato uno studioso dell’Accademia d’arte, e che inoltre, poi, è diventato il sindaco – per molti ‘illuminato’, della capitale Tirana, mi è sembrata evocare un paradosso. Quello fra un’Albania in forte crescita, dove, come diceva Rama a Bignardi, gli investitori italiani si dovrebbero affrettare a stabilirsi, date le favorevolissime condizioni fiscali e di regolamentazione del mercato del lavoro, e l’Albania ‘dei ‘barconi’, che per almeno sette anni, dal 1991 al 1997, ha rappresentato per gli italiani l’immagine di tutto un Paese.

La prima cosa da dire, per aprire lo spazio in cui sta tutta la realtà fra l’invito di Rama agli investitori e il ricordo dei clandestini albanesi degli Anni Novanta, è che mi vergogno. Mi vergogno che la stampa italiana in quegli anni abbia dato credito (anche comprensibilmente, certo) all’allarme profughi, ma non, e davvero nemmeno in minima parte, alla storia contemporanea di quel Paese. Mi vergogno, sì, mi dispiace ma è vero, della mia scuola elementare, media e superiore, che sull’Albania non mi ha fatto studiare niente – fornendo al massimo, nelle ore di religione che non ho mai voluto seguire, un’educazione alla pietas da rivolgere ai profughi, pietas che invero non credo sia stata molto utile per la coscienza politica e storica nemmeno dei miei compagni dediti a quelle ore di religione. Mi vergogno anche dei miei parenti, i pur amati zia, padre, nonna e consimili, che non si sono mai preoccupati di darmi qualche fondamentale lezione di ‘secondo Novecento’ dell’Albania. Non ho figli, e non intendo farne presto. Ma se ne farò, spero di avere la lucidità di denunciare a loro (e a me) tutte le semplificazioni socio politiche che verranno, delle quali quella sui profughi albanesi a mio avviso è stata fra le più gravi.

Il libro di Caiazza mi ha aiutato tanto. Ho recuperato terreno, fissando date, personaggi, rinnovando la curiosità verso un viaggio in Albania che a questo punto spero di soddisfare presto.

Da dove cominciare per riassumere tutto quello che non in molti sanno della seconda comunità di stranieri più numerosa a Livorno (e in Italia)? Ci provo proprio da ‘dentro il libro’, cioè da tre delle cose che mi hanno più colpito di questa lettura. Una. A pagina 219. Nel 1997, dopo che la stampa occidentale si era dilettata per un paio d’anni a descrivere l’Albania con epiteti quali ‘nuova California’, esplose la bolla di una delle più grandi truffe finanziarie mai viste in Europa. Il sistema vuoto delle finanziarie piramidali (a voi informarvi su cosa sono) crollò, dimostrando che migliaia di albanesi avevano investito in società fraudolente. I soldi non c’erano più. In molti avevano perso tutti i risparmi raccolti grazie alle commesse di moltissimi familiari espatriati sei anni prima e divenuti lavoratori soprattutto in Italia, Grecia, Germania. Novemila persone cercarono di lasciare l’Albania verso l’Italia. Ma in questo ‘esodo’ del 1997 l’Italia dichiarò l’emergenza nazionale e dispose un blocco navale davanti a quella frontiera marittima. Se da noi questa storia è stata rimossa, in parte appesa all’appena successiva Operazione Alba, commissionataci dall’ONU, gli albanesi hanno un ricordo molto amaro, racconta Caiazza. Legano il rifiuto italiano del ‘97 a un episodio molto lontano nel tempo: all’aiuto che molti albanesi, nel ‘43, fornirono agli italiani. Contadini, pastori, perlopiù gente senza mezzi superiori alla sussistenza, rifocillarono soldati italiani braccati dai tedeschi, nascondendoli in fienili e cantine e salvandogli la vita. Il fatto che quasi cinquant’anni dopo gli albanesi si aspettassero un ‘ritorno’ di questa scelta non è né ridicolo né triste, ma semplicemente dà la misura di come la storia sia una bestia mutevole e che non si può in nessun modo dimenticare a cuor leggero.

Due. A pagina 212. L’Albania è stata controllata per esattamente quarant’anni da un regime comunista ‘particolare’, quello guidato da Enver Hoxha. Hoxha ha sottratto il proprio Paese agli interessi di Mosca: ha tagliato con Tito, poi con Chruscev. Poi ha guardato a Mao. Ma nemmeno quella ‘alleanza’ è durata più di un decennio. Per dare la misura di cosa significhi ‘isolamento’, nel senso della storia albanese recente, dal 1945 al 1990, Caiazza ricorda che per Hoxha la musica sinfonica e quella classica “non appartenevano alla cultura albanese”. Quindi, per cinquant’anni, due milioni di persone, non hanno potuto ascoltarne. Qualcuno, dei tanti che ameranno la musica, si immagina cosa realisticamente possa aver significato una cosa simile?

Tre. A pagina 122. Caiazza sta facendo un’intervista a un celeberrimo intellettuale albanese, lo scrittore e poeta Dritero Agolli. Gli chiede un sacco di cose e perlopiù Agolli è serissimo. Su una cosa, però, la prende alla leggera e consegna a mio avviso, con quell’ironia, una profondità assolutamente perfetta alla sua risposta. Caiazza chiede se Edi Rama sia corrotto (il primo ministro ospite di Daria Bignardi una settimana fa). – “Mah, no” – Risponde Agolli. La interpreta nel senso che i soldi neri servono al capitalismo, sempre, ovunque, comunque. Poi, piuttosto sorprendentemente precisa: – “La droga in ogni caso la vendiamo anche a voi, che siete democratici da molto prima di noi e la comprate. Quando non ce la chiederete più..”.

Ecco. Questa e moltissime altre cose ci sono in questo libro. Storie sui nomi più comuni in Albania. Fatos, “destino”; Flori, “oro”; Dritero, “luminoso”; Bardh, “bianco”; Gazmend, “mente gioiosa”; Bujar, “generoso”. Storie sul transessualismo sociale delle burrnesh. Storie sulla cassa integrazione statale di discendenza comunista e ancora in funzione, secondo una logica economicamente suicida. Storie sugli albanesi del Nord e sulla legge del clan, il kanun. Storie sulla “città proibita” a Tirana.

Il libro, è vero, si arresta al 2008. Quindi non ci sono elementi per discutere di questa economia di ritorno, per la quale, negli ultimi anni, non solo molti albanesi preferiscono tornare a casa che restare in Italia, a parità di possibilità complessive di occupazione, ma anche molti imprenditori italiani cominciano a guardare alla ‘delocalizzazione’ in Albania. Mentre quel fantasma del barcone si allontana sempre di più e svanisce, se andremo a lavorare in Albania o meno, il primo dovere da italiani è risarcire culturalmente gli albanesi di tutto quello che ci siamo dimenticati di sapere di loro. Partite dal bel libro di Caiazza.

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