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L’uomo che si innamorò della luna

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In questi giorni, il papa mi offre piacevoli spunti. Uno, per sottolineare con malizia di cittadina, (e di semiologa), (e di atea), alcune note dolenti della dichiarazione di ‘apertura’ verso il diritto a esistere di certe scelte sessuali. Un altro per sparlare un attimo di uno scrittore americano che non amo e che non è gay. Un altro, infine, per parlare piacevolmente di uno scrittore americano poco noto (in Italia) e che è gay e che lo racconta tutto il tempo. Per la seconda e la terza cosa metteremo a confronto due romanzi.

Ripartendo dalla prima, vorrei chiamare un attimo l’attenzione sulla forma in cui nel caldo luglio 2013 il papa ha argomentato quest’apertura, e nonostante l’afa, consiglio tutti a farvi percorrere da un brivido di dubbio. Il papa ha detto che lui non è dio e che – è implicito, ma implicato dalle sue parole, sarà dio a giudicare gli omosessuali.

Il dubbio riguarda la possibilità che dentro questa blanda e soave dichiarazione di umiltà vengano cuciti due elementi che stanno dentro anche a qualunque discorso omofobo: primo, il papa ribadisce che la scelta di una sessualità omosessuale è una faccenda grossa, tanto che sarà una di quelle cose che insieme ad altre faccende – i fedeli li chiamano peccati, sarà giudicata niente di meno che da dio. Secondo, gli omosessuali, a livello di ‘figura’, nel discorso del papa fanno subito mucchio, unità, stirpe, genia, specie.. e si può divertire, chi ha voglia di pensarci, a rispondere al problema se sia più un gruppo di gente che condivide una cultura deviante o una specie sbagliata della creazione della Natura.

Il brivido del dubbio che quello del papa sia un discorso omofobo detto, solamente, all’incontrario, ce lo facciamo passare con Tom Spanbauer, L’uomo che si innamorò della luna, Mondandori, 2007. Metto il nome dello scrittore prima del titolo perchè si tratta di uno scrittore che è diventato venerando quando è uscito quel libro – nel 1991. Anche definibile romanzo di formazione scritto con uno stile particolare, sognante, che ha per protagonista un ragazzino americano di origini miste alla ricerca di sé, L’uomo che si innamorò della luna ricorda tanto il caso editoriale di Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer… ma ho invertito l’ordine: Safran Foer è l’autore che non amo e Spanbauer è quello di cui parliamo. Perchè non Safran Foer? Perché il suo è un romanzo caramellato e che si sfilaccia andando avanti e dove, a parte l’esilarante parte iniziale, di risposte secondo me se ne trovano poche.

Mentre L’uomo che si innamorò della luna è divertente tutto il tempo, è coraggiosissimo, e fa pensare a un sacco di cose. Si tratta di un romanzo erotico, in parte erotico gay. Infatti il protagonista di questa storia è omosessuale (ma è solo come un cane, ‘individuo a tempo’ pieno, senza gruppi e appartenenza) e di lavoro fa il prostituto. Uno che gli indiani – la mamma del protagonista era indiana, chiamavano “berdache” – “uomo santo che scopa gli uomini” (p. 4.) . Come noi – da Gramsci a Pascale, abbiamo l’idea dell’intellettuale di servizio, Spanbauer tratteggia questa bella quanto inaudita funzione sociale di un omosessuale di servizio, che nelle tribù indiane faceva l’amore con maschi e femmine contribuendo a una specie di pace social sessuale. Per capire se nella storia delle tribù indiane questa cosa fosse diffusa e funzionasse tocca documentarsi, e questa è un’altra ottima cosa che può venire dal contatto con questo libro. Cosa fa questo ragazzo mezzo sangue indiano, prostituto, nell’Idaho del 1880, mentre cerca la tribù della madre e in generale la storia della sua famiglia? Un sacco di cose. E in nessuna pagina viene voglia di invocare divinità varie ed eventuali o correttezza politica. Preparatevi a un erotismo esplicito e pontifichiamo meno. E’ agosto.

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