Parliamo di politica, più o meno seriamente.

Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

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Italia 2018, istruzioni per l’uso

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Pubblichiamo il contributo arrivato da un nostro lettore abituale: Rocco Garufo.

Ad un anno e più dal referendum costituzionale il sapore amaro della sconfitta stenta ancora a dissolversi. Più dell’amarezza, a pesare, è il senso di una grande opportunità mancata per modernizzare l’architettura istituzionale del Paese. Con essa sfuma, ahimè per molti anni, la possibilità di avere un sistema politico più efficiente; governi incisivi e un processo decisionale più snello e trasparente. Problemi, del resto, condivisi con altre importanti democrazie europee. Senza entrare nei dettagli basta pensare a quanto accade in Austria, Germania, Spagna e persino in Inghilterra, il modello per eccellenza dei partiti a vocazione maggioritaria. Una questione cruciale appare la crescente difficoltà che i sistemi elettorali incontrano nel rappresentare società complesse e sempre più globalizzate. Sembra più che mai chiaro come le proposte del PD su Costituzione e legge elettorale ponevano problemi di grande pertinenza. Ma tant’è…

Comunque, bando ai rimpianti e veniamo ad oggi. Il rapporto Censis 2017 parla di un paese nel quale “persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Il rimpicciolimento demografico, la povertà del capitale umano immigrato, la polarizzazione dell’occupazione che penalizza operai e ceto medio. L’immaginario collettivo ha perso la forza propulsiva di una di una volta e non c’è un agenda sociale condivisa. Ecco perché risentimento e nostalgia condizionano la domanda politica di chi è rimasto indietro.” E prosegue affermando che “lo sviluppo di questi anni non ha prodotto espansione economica.” È su questo terreno che i principali partiti italiani si giocheranno la contesa al prossimo giro di elezioni, con le retoriche peculiari alle loro narrazioni e le visioni, o le non visioni dell’Italia, fra esse contrapposte.

Berlusconi ha “rimesso su il disco del ’94”: quell’ottimismo vitalistico che punta sulla sempiterna riduzione delle tasse e semplificazione della burocrazia per dare una scossa all’economia. Programmi da sempre sbandierati e quasi mai attuati, riproposti con la sfacciataggine di chi, negli ultimi vent’anni, fosse stato un passante qualsiasi nella politica italiana. Accanto a “Silvio” la Lega di Salvini prova a mobilitare la gamma peggiore dei sentimenti razzisti e contrari all’immigrazione proponendo la chiusura delle frontiere e una politica con accenti marcatamente antieuropei.

Dal canto loro, i Cinque stelle hanno costruito la narrazione del Paese sulla disperazione e l’angoscia, sull’antipolitica e una polemica corrosiva delle istituzioni: sentimenti abilmente veicolati nei social network e assemblati in maniera sapiente in grumi compatti di “malumore” collettivo. Propongono slogan e ricette di dubbia attuabilità: “onesta”; “uno vale uno”; reddito di cittadinanza; fuoriuscita dall’Euro; ecc. Proposte che si adagiano sullo stato di difficoltà attuale, piuttosto che individuare una via d’uscita politica.

In mezzo a questi due blocchi si snoda una poltiglia truculenta e spaventosa di forze, movimenti, gruppi e associazioni, con esplicito riferimento alle fosche ideologie del nazifascismo e una violenza crescente e pericolosa connaturata al loro DNA politico-ideologico. Preoccupante perché trova alimento in un “epoca di passioni tristi”, in un senso pervasivo di impotenza e insicurezza che porta i singoli a chiudersi in se stessi e a vivere il mondo come una minaccia esterna. Una condizione aggravata dalle disuguaglianze, dalla disoccupazione e da una visione cupa del futuro, e fa apparire l’estremismo violento come una risposta politicamente accattivante a frange non trascurabili di giovani.

Da ultimo viene il PD e la sensazione prevalente è che dal cinque dicembre 2016, sia mancata la capacità di riorientare la strategia complessiva, con la giusta lettura di una nuova stagione politica e i vincoli del quadro post referendario. Non c’è stata una riflessione coerente sulla necessaria reinterpretazione della vocazione maggioritaria; sul tema delle alleanze in un contesto proporzionale, o punti programmatici da aggredire con forza e credibilità: disoccupazione; povertà; lotta alle disuguaglianze. . . Renzi ha puntato sull’ affermazione interna al PD con le primarie, ma è apparso troppo indulgente nei confronti di quello che il Censis definisce: “l’incessante inseguimento di un quotidiano <<mi piace>>, nella personale verticalizzazione della presenza mediatica.” Troppe volte si è avuta l’impressione di un partito ridotto alla stregua di una tifoseria al servizio di un ristretto gruppo dirigente, con l’ineluttabile conseguenza che formando tifosi, più che “giocatori”, quando è necessario combattere partite difficili vengano a mancare gli elementi capaci di padroneggiare i fondamentali. Sembra questa la lacuna più vistosa del PD attuale, soprattutto al livello territoriale: l’assenza di una classe dirigente in grado di innervare il tessuto sociale con un progetto di cambiamento a forte connotazione politica e culturalmente avanzato. Certo non sono mancati buoni provvedimenti dei governi Renzi-Gentiloni che hanno smosso l’inerzia dell’economia e facilitato una certa ripresa, ma la sensazione per il PD è di dover affrontare un cammino in netta salita, con la fiducia decrescente di una parte di elettorato e una lotta a sinistra che non promette nulla di buono, indipendentemente dalle varie e ben distribuite responsabilità.

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