Parliamo di politica, più o meno seriamente.

Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

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Rule #00. Chi smacchia più bianco non sempre vince

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Odio scegliere. E soprattutto odio scegliere tra troppe alternative: crea troppi pensieri, troppi se, troppi ma.

Uno scaffale pieno di fustini, bottigliette e sacchetti. Colorati di blu, bianco, rosso e verde, dannatamente profumati fino al punto di provocarmi nausea e mal di testa. Distraggo lo sguardo, un’occhiata alla lista per poi tornare sui prodotti.

Non è possibile, mi dico alla vista dei faccioni da testimonial dei nostri politici laddove campeggiavano gli assurdi ma rassicuranti nomi dei detersivi. Mi guardano con sorrisi smaglianti, alla stregua di packaging inquietanti che gridano “scegli me! scegli me!” con la promessa della camicia più pulita, in un continuo rilancio di offerte.

Chiudo gli occhi, li riapro. Per fortuna sono scomparsi. Effetti collaterali della Livorno by night, penso.

Proseguo nella mia missione, Indiana Jones improvvisata nella giungla delle marche. Le troppe promesse volanti mi spingono a essere diligente, tecnica, precisa. Sono una persona razionale: leggerò la composizione, ergo capirò il perché A smacchia più bianco di B. Conclusione: non ci ho capito un bel niente. Tensioqualcosa ionici e carbonati di sodio hanno soltanto aumentato la grande confusione nella mia testa: come scegliere? Quale scegliere? Perché scegliere A invece di B?

E all’improvviso: “Oppure Vendola”.

Allucinazione sulla via di Damasco, il suo faccione a fumetto compare tra un Coccolino in confezione rosa e un Mastro Lindo per pavimenti ai fiori alpini. Faccio finta di niente, mi affido al caso, afferro tra le marche più conosciute quello che sembra il giusto compromesso qualità/prezzo e tanti saluti al reparto noncivogliopiùtornare.

Probabilmente la stessa esperienza di molti italiani alle ultime elezioni.

Cosa non ha funzionato? In che misura contenuti da un lato e comunicazione dall’altro possono spartirsi le colpe? Come migliorare quest’ultima in previsione delle prossime amministrative?

A parità di promesse – i nostri detersivi che promettono tutti di smacchiare più bianco – in base a cosa viene effettuata la scelta?

Sembra che il prodotto politico, da solo, non basti più – e verrebbe da domandarsi se è colpa dei tensioqualcosa ionici, magari non funzionano come una volta, magari non hanno mai funzionato. Il sorriso smagliante più bianco, da risolutore di problemi, non garantisce più l’acquisto. Più alternative l’elettore indeciso ha, più si informa e lo fa sul web. E più informazioni acquisisce, sempre più confuso, spaesato e non conquistato, l’elettore indeciso si troverà obbligatoriamente dinanzi a scelte difficili.

Ecco che il prodotto politico ha scelto di diventare marca, di diventare brand. Avete presente Nike? Immediatamente associamo a essa il logo – lo swoosh – e il “just do it”. Tre elementi che sintetizzano la visione del mondo che essa ti propone: fallo e basta. E tu comprerai questa visione, non la scarpa. Questo è brand. Il branding in politica, in effetti, può aiutare gli elettori a processare le informazioni e a sentirsi più sicuri delle proprie scelte. A votare per una visione cui credono, non solo per il politico in giacca e cravatta che spesso parla fino ad addormentarti (o a farti venire le solite gastriti). Ha a che vedere con immagini, impressioni, emozioni e, soprattutto, riconoscibilità.

Non si tratta di manipolare gli elettori, nè di creare partiti di plastica. Si tratta di enfatizzare i singoli aspetti del proprio prodotto, riposizionare le proposte politiche e la loro immagine in risposta alle modifiche, sempre più imprevedibili e rapide, nei bisogni e desideri degli elettori. Ma soprattutto si tratta di creare relazioni a lungo periodo con la mente e il cuore dei cittadini (sì, voglio essere romantica e ingenua).

Eppure, forse, siamo arrivati all’esasperazione del brand. Le belle visioni del mondo sono evaporate nei loro stessi claim, fagocitate dalle stesse immagini e parole di cui volevano servirsi. E ciò accade a loro stessa insaputa. Che si tratti di prodotto o di servizio, bisogna ripartire da una reason why univoca, solida. Solo da qui può nascere una comunicazione chiara, onesta e, mi si permetta il termine, creativa.

Perché si può essere creativi e onesti anche nella comunicazione politica, creando interazione, raccontando una storia, regalando un momento divertente e ironico rivelando la propria identità, senza nascondersi dietro a fumi di parole.

In America, in occasione del confronto Obama-Romney, due street artist hanno ideato un progetto dal nome “Gumelction”. Sono stati affissi poster che contrapponevano i volti dei due candidati: soprastante la scritta “Who sucks the most? Vote with your gum”.

Volti nostrani sopra cui appiccicare il chewing-gum? Pensateci bene, credo ne avrete di speciali in fondo al cuore…

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