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Quando c’era Berlinguer. Leader amato, combattuto, all’avanguardia

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A una settimana dalla sua uscita nelle sale, sono riuscito ad andare a vedere il film di Walter Veltroni, prodotto da SkyCinema: Quando c’era Berlinguer. La sala era (molto) semi-vuota: oltre a me e al mio amico Dario, “nostalgico” e con la passione della politica come me, c’erano tre ragazze sedute dietro di noi – credo anche loro nostalgiche o, forse, curiose – e un paio di coppie. Totale presenti: 9. Insomma, una platea d’èlite.

Il film, anzi il docufilm, inizia con una carrellata di interviste a ragazzi e ragazze dei licei e di altri istituti superiori romani, sassaresi e piemontesi o raccolte da passanti in giro per Roma che, chi più o chi meno correttamente, rispondono alla domanda su chi fosse Enrico Berlinguer. L’intento del regista, in questa prima parte iniziale, è quello di mettere in risalto la poca memoria storica della nostra generazione, nata a ridosso o successivamente alla sua morte. Effettivamente ci riesce.

Da lì in poi, salvo una piccola parentesi, parte la trama del documentario che alterna in ordine cronologico immagini d’archivio raccontate dalla voce narrante del politico-regista romano (che rievoca anche alcuni ricordi personali) – intervallate da video d’epoca, quali ad esempio le tribune politiche o le riprese di alcuni comizi in piazza – a interviste di alcuni personaggi che sono stati vicini al protagonista fino all’ultimo momento. Tra questi, Aldo Tortorella, responsabile cultura del Partito Comunista; Alberto Menichelli, il capo scorta che ha seguito il segretario per 15 anni fino all’ultimo fatale comizio a Padova; Giorgio Napolitano, che non riesce a nascondere la sua emozione e si commuove, e tanti altri, tra cui: Eugenio Scalfari, Pierpaolo Pasolini, Pietro Ingrao, Lorenzo “il Jova” Cherubini, ecc. Tra questi, il momento più commovente (almeno per me) lo si vive con il racconto dell’operaio delegato sindacale che lo accoglie il 7 giugno 1984 a Padova e che ricorda, in dialetto veneto, di averlo visto “propio male” già al suo arrivo e interrompe il suo racconto mostrando una fotografia di quel giorno che porta con sé e scoppia in lacrime.

Chi fosse Enrico Berlinguer è noto a tutti, o quasi, i “masticatori” di politica: è stato l’unico segretario del Partito Comunista Italiano capace di farlo arrivare a un numero spaventoso di consensi, per l’epoca (di sicuro per gli americani e gli alleati della NATO) ma anche per le seguenti, e a smarcarlo progressivamente dall’orbita sovietica, facendolo confluire nell’area più vasta dei socialdemocratici europei. Leader amato dentro e fuori dal suo partito, come testimonia l’oceanica partecipazione ai suoi funerali e l’omaggio di altri leader del tempo, tra i quali Giorgio Almirante. Si sprecano gli Enrico, Enrico (che farebbero gridare oggi “ad una deriva plebiscitaria”) urlati dalla folla durante i suoi comizi e puntualmente ripresi nella pellicola.

Ma l’aspetto più interessante del documentario non è, appunto, tanto la sua storia, conosciuta quasi interamente da chi si appresta a vederlo, quanto, piuttosto, le emozioni e le considerazioni che ne scaturiscono. Dal racconto di Walter Veltroni ne esce un ritratto di un leader combattuto.

Combattuto dai compagni di partito appartenenti alle diverse correnti, certo. Ma anche combattuto interiormente tra quello che voleva fosse il suo partito e quello che, invece, doveva essere. Berlinguer si trovava, infatti, tra due muri: a est, l’Unione Sovietica, Mosca, dove lui coraggiosamente nel 1977, alla réunion per il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, affermò che “la democrazia è un valore universale”. Queste parole furono pronunciate proprio nella patria di chi, anni prima, aveva mandato i carrarmati a Praga o finanziava le dittature dei vari Tito, Ceausescu e degli altri paesi filosovietici. In quell’occasione, lo applaudiranno solo per 7 secondi. A Ovest, invece, la NATO che, tramite la manipolazione dei nostri servizi segreti, fomentava e permetteva la strategia del terrore di quegli anni, con le bombe sui treni e nelle piazze (di cui ho già parlato in questo articolo), e che non voleva assolutamente che il PCI diventasse partito di governo. Insomma, Berlinguer era “troppo filoamericano per i comunisti e troppo filosovietico per gli americani”.

Ma i muri non erano solo geopolitici. Il segretario sassarese cercava di far fare quel salto ideologico necessario al Partito Comunista Italiano sia all’estero, aprendo il dialogo con le forze riformatrici e socialiste europee – come in occasione delle elezioni europee del 1978 – sia, soprattutto, in Italia, con il tanto cercato e, purtroppo non ottenuto, compromesso storico con la Democrazia Cristiana di Aldo Moro (altro momento commovente del film).

E qui veniamo al secondo attributo che viene in mente durante la visione del film. Enrico Berlinguer era, insieme ad altri leader dell’epoca – quali, ad esempio, lo stesso Moro – all’avanguardia. Aveva capito che l’accordo con le forze di centro, conservatrici, quali la Democrazia Cristiana, doveva essere fatto, per far sì che da una sinistra di protesta il Partito Comunista diventasse Sinistra di progresso, di innovazione, di governo. Una sinistra non comunista ma riformista, che già parlava di diritti, questione morale e di restringere il ruolo dello Stato nell’economia nazionale. Insomma, una sinistra del futuro. Con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro – ma già prima con il Governo Andreotti del 1976, successivo al successo elettorale del PCI – tali speranze, purtroppo, svaniranno e Berlinguer sarà costretto a riportare il suo partito all’alternativa dell’opposizione, mentre il Partito Socialista di Craxi sarebbe diventato parte stabile del Pentapartito di governo.

Insomma, se questo genere di film per essere definito bello deve far uscire il pubblico dalla sala con la voglia di leggere, di approfondire, di farsi delle domande – e questo, magari, era il fine di Walter Veltroni; non solo, quindi, meramente celebrativo e nostalgico – Quando c’era Berlinguer riesce certamente nell’intento.

E a voi, il film, non resta che vederlo.

p.s:  la domanda che ci siamo posti all’uscita è stata: ma se il compromesso storico fosse stato fatto, oggi, in che Italia vivremmo? Chissà.

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