Parliamo di politica, più o meno seriamente.

Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

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Il Monte Golgota dei candidati all’esame per diventare Avvocato: tutte le difficoltà di un percorso infinto…sarà vera gloria?

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Tra i neodiplomati che si iscrivono alla facoltà di Giurisprudenza si possono normalmente individuare due categorie: da una parte coloro che sentono la Vocazione, quelli che…già dal primo giorno si sentono la toga cucita su misura addosso e, dall’altra, gli indecisi, quelli che…spinti dal “non so se iscrivermi a Ingegneria Architettura Economia Storia”, e che alla fine ripiegano su un porto ritenuto (forse ormai erroneamente) sicuro, magari mal consigliati da qualche parente stretto.

I cinque anni di università trascorrono normalmente tranquilli, salva una certa selezione al primo anno dove chi aveva preso troppo alla lettera il noto detto “chi sa sa, chi non sa fa legge” viene generalmente rispedito al mittente. Tuttavia, con una certa dose di buona volontà, un po’ di belle stagioni passate più bianchi delle precedenti, qualche vacanza saltata, alla fine conseguire la laurea diventa un’operazione fattibile. Non che sia una passeggiata, i vari “diritto privato 1 2 3”, “diritto penale 1 2”, “diritto commerciale”, ”diritto del lavoro”, “diritto amministrativo”, “procedura civile” e “procedura penale”, richiedono comunque uno studio sistematico; devo però riconoscere che fatte salve le capacità e le attitudini personali di ognuno, finire un percorso universitario è veramente possibile per tutti se l’impegno è costante. Ma quello che non ci si attende è che le difficoltà sorgono tutte dopo l’agognata laurea. Se lo status di studente presenta alcuni indubbi privilegi, dal momento che si voglia perseguire lo sbocco naturale del pezzo di carta conseguito, subito si capisce che improvvisamente quei privilegi vengono meno. Il neo dottore infatti, una volta deciso a intraprendere la carriera di Avvocato, si ritroverà davanti 18 mesi di puro e semplice sfruttamento a beneficio della categoria di coloro che quel titolo lo hanno conseguito negli anni avanti. Il primo shock avverrà alla prima udienza civile, il pane quotidiano del praticante, dove tutto quello che uno si immagina in anni e anni di film e serie tv, viene in pochi secondi demolito non appena comprende che quella piazza del mercato che si trova davanti è un’aula di tribunale nella quale vengono celebrate le udienze a ciclo continuo, in una sorta di catena di montaggio, dove non si capisce il ruolo di alcuno, non si vedono toghe e men che meno quel clima di profondo rispetto per la somma entità della Giustizia che uno si attenderebbe.

Già dopo pochi giorni il sedicente praticante, anche se si trova in un buon ambiente, dove riesce a imparare qualcosa della nobile arte di cui aspira diventare membro, capisce subito di svolgere prevalentemente un lavoro non retribuito che si distribuisce, tra mattinate perse in una qualche fila in cancelleria e pomeriggi passati in studio a fare ricerche o redigere atti per il proprio “dominus”. Eh si, avete capito bene, perché l’Avvocato presso il quale il praticante è iscritto e che dovrebbe insegnare la professione è ancora chiamato “dominus”, dotato di ogni potere sul sottoposto. L’unico potere però che sembra non venga mai esercitato è quello di dare una adeguata remunerazione come prevederebbe l’art. 36 della Costituzione “proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ovviamente il tutto viene sopportato per i lunghi mesi in attesa dell’esame, aspirando ad un futuro migliore, confidando che quando potrà mettere davanti al suo nome le tre tanto agognate lettere mille porte si spalancheranno.

Trascorsi questi 18 mesi (o più a seconda di quando viene fissato l’esame, il quale ha luogo solamente una volta l’anno) arriva il giorno della verità. E’ incredibile come quei mesi di pratica trascorrano velocemente, sembra veramente ieri l’aver iniziato, e sembra ancor prima, il momento in cui il previdente praticante aveva detto “via, domani comincio a studiare per l’esame”. Salvo poi accorgersi, a pochi giorni dall’esame, di non essere praticamente più a tempo. Molti seguono delle scuole a pagamento di preparazione all’esame, i cui corsi presentano dei prezzi che variano da alcune centinaia di euro a qualche migliaio di quelle più costose, spesa che deve aggiungersi a quella per i codici commentati. Effettivamente, per come è strutturato l’esame, devo dire che le scuole sono praticamente fondamentali, tanto quanto i codici, facendo realizzare che dietro ad un esame tentato da qualche decina di migliaia di persone c’è un business veramente enorme: tra codici e scuola ogni candidato non spende meno di 1.000 Euro.

La cosa che più colpisce dell’esame è il clima. La mia esperienza, ancora fresca di pochi giorni, riguarda la Corte di Appello di Firenze. Il clima che vogliono imporre sin dall’inizio è quello della paura, sin dal giorno precedente all’inizio effettivo, quando la Commissione, coadiuvata dalla polizia penitenziaria, controlla con fare severo i codici che poi saranno utilizzati in sede di esame, timbrandoli e controllando che non siano inammissibili (perché contenenti la dottrina) o perché contengano i famigerati “bigliettini”, passando per i giorni dell’esame vero e proprio, dove le guardie carcerarie in divisa, con tanto di pistola di ordinanza nella fondina, controllano minuziosamente le eventuali borse anche utilizzando metal detector. Da tutta questa serie di segnali si percepisce che quel clima di paura sia voluto. Nelle prime due ore delle prove è rigorosamente vietato andare in bagno, e i commissari non fanno niente per celare la loro rigidità, anche mentale, vietando i bisogni fisiologici anche a costo di far sentir male le persone. Per fortuna almeno tra i candidati il clima è molto più tranquillo, tutti percepiscono di trovarsi sulla stessa barca, a fare un esame dove non si ha nemmeno la certezza che gli elaborati verranno letti e quindi c’è un atteggiamento di grande collaborazione, tutti si prodigano per offrire di tutto, dal caffè, alla cancelleria, ai codici stessi. L’esame consta di tre prove, da disputarsi in tre giorni di sette ore ciascuna, il tutto senza avere un punto di ristoro all’interno con il tempo che decorre a partire dalla dettatura (si, nel 2013 esiste ancora la DETTATURA delle tracce). Soprattutto il primo giorno la tensione è veramente palpabile, riuscire a gestire correttamente il tempo è un’impresa titanica perché la voglia di fare e far bene è enorme e la tensione brucia costantemente i minuti. I commissari e gli agenti di polizia penitenziaria girano con fare molto serio, alla costante ricerca di qualcuno da cogliere in fallo. Trascorse le sette ore (oltre alle tre di attesa) la stanchezza è immane, ma allo stesso tempo è il momento migliore della giornata: è molto bello il rapporto che si instaura con i colleghi, soprattutto con quelli del proprio ordine, con cui si nascono delle vere e proprie amicizie, come molti dei presenti hanno rilevato, sembra di essere in gita scolastica, tutti insieme, in un’altra città, a dormire in albergo e a cena insieme. Terminate le prove, come in Fight club la regola è: “non esiste l’esame”, l’argomento è tabu, nessuno vuole sapere il risultato, sebbene alla fine, ogni discorso porti poi a parlare proprio di quello.

Quella dell’Esame è veramente un’esperienza travolgente, ma veramente formativa per la persona, sebbene rimanga qualche dubbio sull’utilità di questo genere di prove, attuate alla fine di un percorso in cui il dottore in giurisprudenza dovrebbe già avere un certo tipo di nozioni. E allora mi chiedo…è davvero utile che questa selezione avvenga quando l’età media è quella di trent’anni? L’obiettivo prefissato è davvero quello di saggiare la preparazione dei candidati? Oppure serve solo a fare da filtro all’ingresso per una categoria già eccessivamente prolifera? Perché se l’obiettivo è quello di creare un filtro, forse allora sarebbe meglio anticipare questa selezione e conservare di più le energie di ragazzi e ragazze nella seconda metà dei loro venti anni dirottandoli magari verso altri mestieri ed evitare che comincino una pratica funzionale solo ad evitare maggiori oneri per una categoria che ha già avuto nel tempo, ovvero quegli avvocati che hanno già ricevuto ingenti benefici durante tutta la loro carriera, caratterizzata da uno status che noi giovani non potremo mai raggiungere. Forse allora meglio sarebbe prevedere un numero chiuso, o un esame alla fine del percorso universitario per poter consentire l’ingresso alle professioni forensi, evitando il lungo sfruttamento del praticantato senza avere alcuna certezza sul futuro. Anche perché, una volta conseguito il titolo, non sarà come vincere un concorso pubblico o privato, una volta diventato Avvocato, per l’ennesima volta, sarà solo l’inizio di un percorso.

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