Parliamo di politica, più o meno seriamente.

Dipende dal clima, siamo meteoropatici.

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L’impero di Cindia

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Avevo promesso – mi ero riproposta, di scendere in picchiata su dove sono. Basta Europa, basta Italia. Io vivo fra Livorno, e ci sono anche nata, e Bologna (e altri posti, in passato, tipo la capitale dello stato che fa le ostriche e lo champagne, e, altri, più vicini – ma ne riparleremo). Quindi, per parlare di dove mi trovo, rilevo innanzitutto che a Livorno le ostriche ci sono, ma costano un bel po’. E se devi fare spesa così, distratta, non vai a comprare quelle. Io, in particolare – perché il salumiere con il crudo squisito dopo un po’ mi annoia, vado a fare la spesa in posti che prima non c’erano. Bazar cinesi, se volete una forma politicamente corretta, oppure “cinesi” e basta, o pakistani, o bangalesi – di nuovo, quest’ultima, parola molto molto corretta e che non sento mai. Per un po’ di curiosità si possono anche andare a cercare la storia e i dati di chi viene qui da lì, come dallo Sri Lanka (tantissimi) dalle Filippine (ancora di più) . Ieri ero in un bazar cinese e mi chiedevo cosa so di loro. Cosa so di come vivevano, prima di vivere qui? Mi è venuta una risatina. Perchè pensavo: forse, piuttosto, cosa so di come vivranno di nuovo, visto che le ondate migratorie fra Asia e Europa nell’immediato futuro hanno da promettere più per un ritorno a Est.

Mi sono dovuta ricordare che le prime avvisaglie di quest’allerta – che il mondo sta cambiando molto in fretta e va più a est che a ovest, le avevo lette in un saggio non recentissimo. Era un libro con un bel nome, L’impero di Cindia, Mondadori, 2006, anche se scritto da un autore non troppo mio amico, il giornalista Federico Rampini. Saggio da consumo veloce: da pagina quattordici, dove c’è una cartina enorme, di quelle non troppo fitte, per intendersi, di quelle che c’è qualche speranza che ti facciano fissare qualcosa, ti trovavi verso pagina trecento, allibito, sia per quello che avevi letto, sia per l’essere arrivato così avanti senza fatica. Il titolo può aiutare a capire di cosa parli: Rampini, l’autore, ha vissuto in Cina per molti anni, e per scrivere l’altra parte del libro ha fatto un viaggio in India. Così, Cindia.

La costruzione è lontana da quella del saggio, coraggiosa direi: infatti si tratta di un due, o trecento paragrafi schizofrenici – mai più di tre pagine, e da uno all’altro si salta di palo in frasca.

E’ impossibile registrare tutte le impressioni di tutte le cose che il libro butta giù come fatti delle culture e delle economie indiana e cinese del 2006. Però, anche fissandone solo la metà, è un libro che fa fare molto lavoro di immaginazione. Immaginate, per esempio, da italiani, di andare a vivere a Shangai con genitori o figli, e generi, da Bari, perché vi ritrovate a essere il direttore, o la direttrice, di una fabbrica di divani che ha aperto una sede in Cina, dove fa i divani a un quarto del prezzo a cui li può produrre in Puglia – e poi li rivende all’Ikea statunitense (p. 162). Oppure, di essere un cinese cattolico nel paese della Rivoluzione di Mao, e vivere dal 1951 in un’atmosfera di disapprovazione che non di rado include la detenzione e la rieducazione (in pratica sareste un cinese con la biografia di un italiano aderente alla FAI) (p. 256). Ma forse, il trentenne che ieri mi vendeva prelibati viveri mentre ci sorridevamo un po’ sudati, veniva da Kashi, nello Xinjiang, la regione più vasta della Cina, dove una parte della gente costituisce un gruppo etnico musulmano, e che deve assomigliare un po’ al Tibet. Se veniste da lì parlereste uiguro, una lingua turcomanna, e non andreste a scuola con gli Han, i cinesi, che fanno lezione solo in mandarino e sono caldamente invitati a non considerarvi interessanti, come voi siete invitati a fare con loro, se si tratta di contratti tipo matrimoni (p. 272). Ma non c’è da scandalizzarsi, perchè a Tianjin, vicino a Pechino, c’è una mini colonia italiana – ottenuta con la solita, raccapricciante collaborazione italiana a una repressione reazionaria, colonia dove pare che Galeazzo Ciano si costruì un casinò. Poi i fascisti a Tianjin finirono male, o finirono fascisti, rialleandosi con i giapponesi (p. 176).

Siccome trovo un po’ indigesto il voler appiccicare insieme le vite cinesi con quelle indiane – come se fosse ovvio, perchè Cina e India sono accanto, e lo sguardo del giornalista va all’efficace e ce le mette tutte e due, per sapere di cosa trattino anche l’altra metà di follie del libro, quelle indiane, la soluzione più semplice che avete è leggerlo. Poi ci sarebbe da farlo leggere ai cinesi, come agli indiani livornesi, per sapere se sono d’accordo.

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