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Metodo Boffo in salsa labronica

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In politica e in amore tutto è permesso verrebbe da dire, ma non è proprio così.

Il metodo Boffo lo conosciamo tutti, così come i calzini turchesi del giudice Mesiano: questi due casi hanno fatto storia e sono entrati nel linguaggio comune. Per intendersi: “una locuzione utilizzata nel linguaggio politico e giornalistico per indicare una campagna di diffamazione a mezzo stampa, basata su fatti reali uniti a falsità e illazioni, […] allo scopo di screditare un avversario politico”. In breve, l’espressione”macchina del fango”. I fatti che hanno dato origine a questi neologismi si riferiscono a qualcosa di ampio con caratura nazionale, ma per andare nel concreto e direttamente vicino a noi labronici, porto in analisi ciò che è accaduto durante la campagna elettorale del segretario territoriale del PD e che si è ripresentato durante la campagna elettorale del segretario comunale.

Tutti questi episodi, guarda caso, hanno spesso come protagonisti (intesi come coloro che lanciano il fango) lo stesso gruppo di persone e come vittima, la stessa area politica. Gli “infangatori” trincerandosi dietro a parole come: “etica, moralità, no agli inciuci”, lanciano accuse inventate e infondate, anche a livello personale, nei confronti di avversari politici, ignorando che, tali avversari, altro non sono che compagni che militano nello stesso partito.

Ora, a mio dire, il ricorso alle commissioni di garanzia, durante una tornata elettorale è lecito, ma farlo con una frequenza, come sta accadendo qui a Livorno, ha del ridicolo, soprattutto quando il fatto è inesistente e totalmente inventato, soprattutto quando a ricorrere a tali sedi e con tali metodi, è sempre il perdente o lo sfavorito. Ma cosa spinge degli individui ad usare questi metodi per attaccare un avversario politico? Le risposte banali che mi vengono in mente sono tre:

1) i giornali (e i giornalisti) locali, soprattutto, vanno a nozze sul gossip politico, dove la notizia sfocia in “caciara” pertanto gli “infangatori” sono sempre sulla cresta dell’onda mediatica;

2) l’incapacità di affrontare la campagna elettorale su un piano programmatico e con competenza politica rispetto a come farebbe un “paparazzo”;

3) il considerarsi sfavoriti, mette a repentaglio la cosa più amata dal “politico nostrano”… la benevolenza del popolo dite voi? No! La poltrona.

E non finisce qui… Altra invenzione, nata da poco, è la creazione di account “fasulli” su Facebook. Questo procedimento di alto spionaggio industriale, permette da un lato di dire ciò che si vuole nascosti dietro al monitor, dall’altro può dare manforte ai post del profilo ufficiale. Tuttavia chi usufruisce di questa geniale idea, si è dimenticato di rendere credibili questi nuovi account (furbi ma fino ad un certo punto): non hanno post recenti, non hanno immagini di profilo, se non fumetti o foto generiche, non hanno amici (per mantenere il segreto non hanno come amico l’account ufficiale, altrimenti si scopre il mistero).

Il tutto per cosa? È vero che con i social network le elezioni non si vincono, ma si possono perdere… per cui questi meccanismi e questi metodi di campagna elettorale sono ridicoli e mostrano all’esterno un partito, in questo caso il PD, diviso e in continua lotta interna.

Pertanto un semplice elettore a che titolo dovrebbe dare fiducia ad un partito in continua lotta con se stesso, a che scopo un cittadino dovrebbe votare un partito che si sottopone ad autolesionistiche campagne elettorali non volte al benessere collettivo, ma alla spartizione dei pani e dei pesci?

La domanda finale a cui dovremmo rispondere è: ma i cittadini perché dovrebbero venire a votarci?

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