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Il rebus delle pensioni d’oro: tra diritti, quesiti ed equità sociale

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Nelle ultime settimane è tornato alla ribalta il tema delle pensioni d’oro grazie alla diffusione dei dati INPS che hanno scatenato fortissime polemiche intorno ai “paperoni” delle pensioni. Nei giorni scorsi due proposte, presentate rispettivamente da Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) e Pietro Ichino (Scelta Civica) hanno condensato in due disegni di legge sostanzialmente simili la strada per attaccare questo tipo di privilegi che, seppur legittimi, stridono oggi sempre più con la situazione del paese reale.

Le due proposte mirano infatti a superare l’impasse causata dalla sentenza con la quale i giudici della Corte Costituzionale hanno bocciato le norme varate in materia dal governo Monti con le quali era stato disposto, in via provvisoria dall’agosto del 2011 fino al 31 dicembre 2014, un taglio a tutte le pensioni pubbliche e private superiori ai 90 mila, ai 150 mila e ai 200 mila euro lordi l’anno; su di esse veniva, infatti, a gravare un contributo di perequazione pari, rispettivamente, al 5% della parte eccedente l’importo fino a 150mila euro, al 10% per la parte eccedente 150mila euro, e al 15% per la parte eccedente 200mila euro.

La questione di legittimità è stata risolta dai giudici tirando i ballo i famosi diritti quesiti. Ma che sono? I diritti quesiti sono quella categoria di diritti che, una volta entrati nella sfera giuridica di un soggetto, sono immutabili. Tale condizione permane anche di fronte a eventuali cambiamenti dell’ordinamento, come nel caso delle modifiche del governo Monti.

Il senatore Ichino, giuslavorista ex PD, ha innanzitutto operato un distinguo tra le pensioni che sono elevate perché il lavoratore per tutta la propria vita lavorativa ha percepito retribuzioni molto elevateversando contributi previdenziali in proporzione; e quelle che invece sono alte perché il lavoratore ha guadagnato uno stipendio alto soltanto alla fine della sua vita lavorativa, mentre nella parte precedente riceveva una retribuzione sensibilmente inferiore. Occorre ricordare, per inciso, che le pensioni precedenti alla riforma Dini si calcolavano in base al sistema retributivo, per cui il quantum della pensione veniva parametrato all’ultimo stipendio.

Sia la proposta Ichino che quella della Meloni si concentrano appunto sul secondo tipo di pensioni, quelle che evidenziano una discrasia tra la pensione calcolata in base ai contributi versati durante tutta la vita lavorativa (sistema contributivo) e quella calcolata solo in base alle ultime retribuzioni. “Su questa differenza”- sostiene Ichino – “può e deve applicarsi un contributo straordinario, che, applicandosi solo su questa parte, può essere determinato anche in misura molto superiore rispetto a quella del cinque o del dieci per cento fissata dal Governo Monti l’anno scorso e poi bocciata dalla Corte costituzionale.”

La Meloni, la cui proposta è fin qui sovrapponibile a quella di Scelta Civica, propone anche un vincolo di destinazione per i risparmi derivanti dall’applicazione di quella che sostanzialmente si atteggerebbe come una nuova tassa. “I risparmi di spesa in tal modo conseguiti vadano assegnati al bilancio dello Stato e destinati a misure di perequazione delle pensioni minime e di invalidità”. Le fa eco il liberista Alessandro De Nicola che, commentando del due proposte in un recente editoriale su L’Espresso, ha rilevato la necessità di una clausola automatica per la quale qualsiasi centesimo recuperato dall’imposta sulle super-pensioni “parassitarie” sia destinato ad abbassare l’Irpef per i redditi bassi.

Insomma qualcosa sembra muoversi in Parlamento in tema di pensioni. Staremo a vedere se ci saranno sviluppi in tal senso e come risponderanno governo e maggioranza a queste proposte, sempre che, una volta approvata la legge, non intervenga nuovamente la scure della Corte Costituzionale.

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