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Perchè la mia generazione non deve dimenticare Piazza Fontana

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Il 12 Dicembre 1969, alle ore 16 e 37 minuti, una bomba esplode alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. L’esplosivo – 7kg di tritolo – scava una buca di un metro di diametro nel pavimento della sala principale della banca. E fa quattordici morti sul colpo, più altri tre nei giorni seguenti a causa delle ferite riportate: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Vittorio Mocchi, Luigi Meloni, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva, Attilio Valè, Gerolamo Papetti. Tutti civili, innocenti. Ai quali si aggiungono 88 feriti: ciechi, sordi, amputati, invalidi permanenti. Già solo la gravità di quanto successo sarebbe un buon motivo per ricordare l’attentato. Ma voi provate a chiedere, e a chiedervi, di più. Non otterrete molte risposte. La nostra generazione conosce poco di questa strage. Giustamente, anche per motivi anagrafici, sappiamo “di più” – passatemi l’espressione quasi blasfema – di Falcone e Borsellino. Meno, molto meno, su quanto avvenuto negli anni sessanta e settanta. Ma perchè ricordare e chiedere di più, se non per mero dovere civile nei confronti delle vittime e delle loro famiglie, di un fatto accaduto 44 anni fa?

In primo luogo, perchè tante sono le domande alle quali non si è riusciti a trovare risposta. Tra queste: chi piazzò, quel pomeriggio di Dicembre, la bomba? Chi fornì il materiale? Perchè la pista (rivelatasi poi vincente) del terrorismo nero, non fu minimamente presa in considerazione dagli inquirenti? Di certo si sa poco, a parte il numero delle vittime. Pare che, secondo quanto stabilito nel 2005 in Cassazione, a preparare l’ordigno furono Giovanni Ventura e Franco Freda, militanti neonazisti legati alla cellula padovana di Ordine Nuovo, che saranno riconosciuti come responsabili della strage, ma non più giudicabili in quanto assolti anni prima dalla Corte d’Appello di Bari. Ma, in generale, sono tutti i processi svolti negli anni a non portare a granchè. Nel 1992 Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, anche loro facenti parte di Ordine Nuovo, vengono condannati in primo grado all’ergastolo, ma poi assolti in Appello e in Cassazione. Nota a latere: ai familiari delle vittime è stato chiesto, contestualmente all’assoluzione degli imputati, il pagamento delle spese processuali. Spese delle quali, grazie a Dio, si è fatto carico lo Stato, anche se resta per loro questa un’amara consolazione.

E poi la vicenda di Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico trattenuto illegalmente per i tre giorni successivi (senza cibo né riposo) in questura insieme ad altre decine di militanti e morto il 15 Dicembre in circostanze misteriose. Per la questura, Pinelli si suicidò gettandosi dal quarto piano della stanza dove si stava svolgendo il suo interrogatorio ad opera dei colleghi del Commissario Luigi Calabresi, in quel momento assente. Per altri, tra i quali la famiglia e i compagni anarchici, vista anche l’insussistenza di prove a suo carico, l’ipotesi del suicidio non reggeva. Ma per la giustizia italiana il caso fu chiuso nel 1975. E tant’è. Il Commissario Calabresi verrà invece “riconosciuto” come colpevole dal giornale Lotta continua. Verrà ucciso nel 1972 sotto casa da alcuni militanti di estrema sinistra a colpi di arma da fuoco.

Allargando per un attimo l’orizzonte, vi sono altri motivi per i quali si deve chiedere di più. Piazza Fontana, infatti, può essere considerata l’incipit degli – ahimè – famosi “anni di piombo”. Quelli nei quali in Italia scoppiava una bomba – in media dal 1968 al 1974 – ogni 15 giorni. Quelli nei quali era stata attuata (anche se riconosciuta solo più avanti) la cosiddetta Strategia delle tensione e nei quali si contano – fino al 1980 – 12.690 attentati, con 362 morti e 4490 feriti. Ed è proprio per quella occasione (quella di Piazza Fontana, la prima di una lunga serie, seconda per gravità solo a quella di Bologna del 1980, nella quale si ebbero 85 morti e 218 feriti) che verranno coniate espressioni che accompagneranno l’Italia per due decenni. Espressioni che mettono i brividi solo a pensarle. Servizi deviati e Strage di Stato. I cittadini vengono così coinvolti in una guerra urbana che non fa prigionieri: civili, ma anche politici, magistrati, poliziotti. Bombe sui treni, bombe nelle piazze, bombe alle manifestazioni. Chi le piazzò – da quanto emerse nelle varie indagini, quasi sempre gruppi di ultradestra e neonazismo operanti in quegli anni – mirava a creare un sentimento di paura negli italiani. Questa paura doveva giustificare così agli occhi di tutti una revisione della Costituzione in chiave presidenzialista e un contestuale inasprimento delle leggi di pubblica sicurezza. Magari, accompagnati da Colpi di Stato, come quelli preparati e mai (per fortuna) attuati del 1964 del Piano Solo e del 1970 del Principe Borghese. Nelle varie indagini e dagli atti processuali, nonché dalle dichiarazioni rese anni dopo alla stampa da esponenti di ambo le parti protagonisti di quell’epoca, si legge anche di infiltrazioni di militanti di estrema destra nelle organizzazioni della sinistra extraparlamentare. Nonchè di agenti dei servizi segreti italiani corrotti e alla mercè di gruppi massonici o, ancora peggio, asserviti al volere di pericolose fazioni conservatrici della NATO, preoccupate dall’avanzata comunista in Italia – il PCI superò il 30% – e dalle aperture fatte in quegli anni dall’ala sinistra della Democrazia Cristiana. Le quali aperture portarono tra le tante, nel 1978, al rapimento e al successivo assassinio dell’on. Aldo Moro. Insomma, sembra proprio che in quegli anni una parte dello Stato non rispondesse più allo Stato in quanto tale, bensì a disegni geopolitici sovranazionali. Pezzi dello Stato che, come avvenuto per la strage di Piazza Fontana, coprirono alcune verità, depistando le indagini o facendo sparire prove fondamentali. A quei pezzi, però, nonostante sia stata pacificamente accolta la teoria appena esposta, non si è mai riusciti a dare dei nomi e dei cognomi. Come ha scritto lo scomparso Giuseppe D’Avanzo, lo Stato ha voluto essere “muto, cieco, sordo e colpevole, incapace di correggere se stesso e di far luce nei sotterranei della sua storia”. Ed è questa la cosa più triste e agghiacciante della vicenda.

E, infine, c’è qualcos’altro – se non bastasse quanto detto finora – che proietta l’ombra di Piazza Fontana fino ai giorni nostri. Come sostenuto da Eugenio Scalfari in un articolo del Marzo 2012 alla vigilia dell’uscita del film “Romanzo di una strage” (che ritrae molto bene quella vicenda e consiglio vivamente di vedere) l’Italia, da quel momento in poi, è divenuta fragile. O, meglio, è stata condannata “ad una perenne fragilità”. Perchè non dobbiamo scordarci che la nostra amata Repubblica, nel 1969, aveva appena 23 anni. La Costituzione, frutto di un lavoro certosino di compromesso storico culturale (non sta a me qui ricordare quanto travaglio c’è dietro a quella che molti definiscono la più bella Costituzione al mondo – che qualcuno oggi bestemmiando chiamerebbe “inciucio”), di anni ne aveva solo 21.

Per questi motivi, la strategia della tensione ha avuto gioco facile nell’attaccare le basi di una democrazia giovane, che in quel momento storico stava faticosamente mettendo su le sue difese, i suoi bastioni, contro il rischio di un ritorno di derive populiste e dittatoriali. “Il sistema immunitario”. E, secondo il fondatore di Repubblica, in Italia, proprio il sistema immunitario “è stato il vero obiettivo della strategia della tensione e di chi ne ha alimentato e rafforzato l’esistenza. Questa è stata l’endemica malattia che ha afflitto l’Italia e che ancora non è stata guarita”.

Quindi, se vogliamo guarire dalla “malattia”, per noi ricordare è necessario. Ma saperne qualcosa ancora di più.

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